Emozioni e Disturbo Borderline di Personalità
Emozioni e Disturbo Borderline di Personalità
In un precedente articolo abbiamo detto che la difficoltà a regolare le emozioni è comune a moltissime forme di disagio. In questo articolo spieghiamo con alcuni esempi pratici la relazione tra la disregolazione emotiva e il Disturbo Borderline di Personalità.
È importante precisare però, che non tutti coloro che hanno difficoltà con la regolazione emotiva presentano problemi di salute mentale e che qualsiasi diagnosi medica deve sempre essere eseguita da professionisti qualificati.
1. I Disturbi di Personalità
I Disturbi di Personalità possono essere descritti in modo generico come modi di pensare, sentire e agire molto diversi da quelli prevalenti, che compromettono il funzionamento sociale e lavorativo e creano grande disagio, emotivo, psicologico e fisico in chi ne soffre [1].
I disturbi di personalità hanno alcuni tratti in comune, tra cui i seguenti:
- Difficoltà nella regolazione delle emozioni: reagire agli eventi della vita con emozioni sproporzionate, rendendo difficile gestire stress e conflitti quotidiani;
- Instabilità del sé: sentirsi confusi riguardo alla propria identità, cambiare spesso idea su sé e avere difficoltà a stabilire chiari confini tra sé stessi e gli altri.
2. Il Disturbo Borderline di Personalità
Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è un tipo di Disturbo della Personalità, i cui sintomi iniziano tipicamente durante l'adolescenza o la prima età adulta. Oltre ai tratti comuni a tutti i Disturbi di Personalità, per diagnosticare tale disturbo devono essere presenti una serie di tratti ulteriori [1] tra cui:
- Impulsività: agire senza pensare alle conseguenze, in modi che possono essere dannosi per sé stessi (tra cui abuso di sostanze o guida spericolata);
- Autolesionismo: ferirsi intenzionalmente come modo per gestire sentimenti intensi o situazioni stressanti.
- Profondo senso di vuoto: sentire come se nella propria vita mancasse qualcosa che non si riesce a identificare o colmare.
3. Emozioni e Disturbo Borderline
Una ricerca condotta su 111 adolescenti, di età compresa tra 12 e 17 anni [3] ha dimostrato che:
- Chi soffre di Disturbo Borderline di Personalità tende a "iper-mentalizzare" ossia a "pensare troppo a lungo, ed in modo negativo, alle motivazioni che stanno alla base dei comportamenti altrui, giungendo spesso a conclusioni sbagliate;
- La difficoltà di regolazione emotiva amplifica questa tendenza a iper-mentalizzare e ciò a sua volta aumenta la gravità dei sintomi del Disturbo come l'impulsività e i comportamenti autolesionistici.
3.1. Un esempio concreto
Immaginiamo una ragazza di nome Gaia che ha un Disturbo Borderline di Personalità, e che vede i compagni di scuola che bisbigliano e la guardano.
Il suo dialogo interiore potrebbe somigliare a questo:
- Iper-mentalizzazione: "Stanno di nuovo bisbigliando e guardando verso di me. Devono sicuramente parlare male di me. Forse hanno notato che sono sbagliata o che ieri ho fatto qualcosa di sbagliato.";
- La disregolazione emotiva aumenta l'iper-mentalizzazione: "Sì, è chiaro, devo essere io il motivo per cui stanno bisbigliando. Nessuno qui mi vuole bene, è sempre la stessa storia. Mi sento così arrabbiata e triste allo stesso tempo. Non riesco a smettere di pensare.";
- Peggioramento dei sintomi: "Non riesco più a sopportare questo pensiero. Forse dovrei fare qualcosa per farmi sentire meglio, anche solo per un momento. Potrei urlargli contro o fare qualcosa di drammatico, così saprebbero quanto mi fanno soffrire" (impulsività). "Sarebbe più facile se potessi tagliarmi, almeno il dolore fisico potrebbe aiutarmi a dimenticare tutto questo casino nella mia testa" (autolesionismo).
4. Psicoterapia e Disturbo Borderline
Una psicoterapia efficace deve quindi [4] intervenire sia sull'aspetto comune a tutti i Disturbi di Personalità, come la regolazione emotiva, sia sugli aspetti specifici del Disturbo Borderline come l'impulsività e la tendenza all'autolesionismo,
Ad esempio, la Terapia Dialettico Comportamentale (Dialectical Behavior Therapy, DBT) è stata sviluppata da Marsha Linehan negli anni '80 come un metodo specifico per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità [2]. Questa terapia
- Combina tecniche di Terapia Cognitivo-Comportamentale con concetti derivati dalla Mindfulness;
- È particolarmente efficace nel gestire le rapide e intense fluttuazione delle emozioni e i comportamenti impulsivi.
Per riprendere l'esempio, possiamo immaginare un dialogo (ideale e semplificato) tra Gaia e il suo Terapeuta che usa la Terapia Dialettico Comportamentale.
Il dialogo potrebbe assumere questa forma:
4.1. Introduzione:
- Terapeuta: "Gaia, oggi vorrei che parlassimo di quello che è successo in classe l'altra volta, quando hai notato i tuoi compagni che bisbigliavano. Mi hai detto che hai pensato subito che fossero commenti negativi su di te. Parliamone un po'";
- Gaia: "Sì, è stato orribile. Non so perché, ma ho pensato subito al peggio e questo mi ha fatto sentire davvero male. Ho avuto voglia di... di farmi del male, solo per smettere di sentirmi così";
- Terapeuta: "Capisco quanto possa essere difficile per te in questi momenti. È importante che lavoriamo sulla tua capacità di regolare queste emozioni intense. Iniziamo con alcune tecniche di Terapia Dialettico Comportamentale che possono aiutarti a gestire meglio queste situazioni. Vuoi provare?";
- Gaia: "Va bene, sì."
4.2. Intervento sull'aspetto generale: regolazione delle emozioni
- Terapeuta: "Una tecnica che possiamo usare si chiama Mindfulness. Ti aiuta a prendere coscienza dei tuoi pensieri e sentimenti senza giudicarli. Quando noti che stai iniziando a pensare troppo o a immaginare il peggio, prova a fermarti, respira profondamente, e osserva questi pensieri come se fossero nuvole che passano nel cielo. Non sei i tuoi pensieri.";
- Gaia: "Quindi, non dovrei reagire subito?";
- Terapeuta: "Esatto, Gaia. È come fare un passo indietro e permettere a te stessa di vedere la situazione più chiaramente prima di reagire. Questo ti aiuta a ridurre la reattività emotiva."
4.3. Intervento sugli aspetti specifici: impulsività e autolesionismo
- Terapeuta: "Per quanto riguarda l'impulsività e i comportamenti autolesionistici, possiamo lavorare su strategie di tolleranza al disagio. Queste sono tecniche che ti aiutano a sopportare i sentimenti dolorosi in modi che non ti danneggiano. Ad esempio, possiamo creare una "scatola della calma" con oggetti che aiutano a calmarti, come una stress ball, musica rilassante, o immagini che ti piacciono.";
- Gaia: "Questo potrebbe aiutarmi a non farmi del male?";
- Terapeuta: "Sì, è esattamente questo l'obiettivo. In momenti di forte disagio, invece di agire impulsivamente, puoi rivolgerti a questa scatola per trovare un sollievo temporaneo mentre passa l'impulso. È un modo per prenderti cura di te stessa in modo sicuro.";
- Gaia: "Mi piace questa idea. Posso provare a mettere insieme qualcosa per la prossima volta.";
- Terapeuta: "Ottimo, Gaia. E ogni volta che usi la scatola, vorrei che poi scrivessi come ti sei sentita dopo, così possiamo parlarne e aggiustare le cose se necessario. Ricordati, il nostro obiettivo è sviluppare strumenti che ti supportino nel gestire le emozioni difficili senza farti del male.";
- Gaia: "Grazie, penso che potrebbe davvero aiutarmi.";
- Terapeuta: "Sono qui per questo, Gaia. Andiamo avanti passo dopo passo."
5. Conclusioni
La difficoltà nella regolazione delle emozioni è un aspetto comune a tutti i Disturbi di Personalità e aumenta l'intensità di sintomi specifici del Disturbo Borderline di Personalità come l'impulsività e l'autolesionismo.
La Psicoterapia Dialettico Comportamentale è una delle terapie più efficaci per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità poiché interviene su entrambi gli aspetti.
Tale integrazione permette un approccio adattato alle esigenze uniche di ogni paziente, una maggiore efficacia a lungo termine e un miglioramento complessivo della qualità di vita.
6. Bibliografia
- American Psychiatric Association (2021), Trad. It. (2023): "Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione, Text Revision (DSM-5-TR®)", Raffaello Cortina Editore, Milano;
- Linehan M. (1993), trad. it (2021): "Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Il modello DBT", Raffaello Cortina Editore, Milano;
- Sharp C, Pane H, Ha C, Venta A, Patel AB, Sturek J, Fonagy P. (2011): "Theory of mind and emotion regulation difficulties in adolescents with borderline traits". J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. Jun; 50(6): 563-573;
- Sharp C, Wright AG, Fowler JC, Frueh BC, Allen JG, Oldham J, Clark LA. (2015) : "The structure of personality pathology: Both general ('g') and specific ('s') factors" J Abnorm Psychol. May; 124 (2) : 387-98.
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La Psicologia delle Emozioni
La Psicologia delle Emozioni
In questo articolo parliamo di come regolare le emozioni e del ruolo che tale regolazione può avere per il nostro benessere.
1. Cosa vuol dire "Regolare le Emozioni"?
"Regolare le Emozioni" significa saperle gestire in modo positivo per affrontare meglio le sfide quotidiane, mantenendo il controllo su ciò che proviamo e migliorando le nostre relazioni con gli altri. [3], [5], [9], [10].
Chi ha difficoltà a regolare le emozioni, spesso presenta una di queste due caratteristiche: prova emozioni troppo intense o cerca di controllarle troppo, nascondendole. [6], [4], [5]:
- Eccessiva intensità delle emozioni: in questi casi la persona, di fronte ad una scadenza lavorativa o a un conflitto, può provare emozioni intensissime, una difficoltà a calmarsi, un aumento della frequenza cardiaca o della tensione muscolare e un dialogo interno improntato all'auto-critica;
- Eccessivo controllo delle emozioni: in questi casi la persona, invece di cedere all'emozione, cerca di mantenere una facciata di indifferenza o di positività. Questa strategia, come vedremo, nasce da una sorta di fuga dalle emozioni e, sebbene possa apparire funzionale nel breve periodo, non consente di prendere contatto con sé stessi e con i propri vissuti, producendo quindi nel lungo periodo il rischio di dar luogo a esplosioni inaspettate o episodi di irritabilità;
Entrambe queste strategie peggiorano le relazioni interpersonali e quindi producono un isolamento sociale che diminuisce la qualità della vita:
- L'eccessiva intensità: produce reazioni che spesso i colleghi di lavoro, gli amici o i famigliari fanno fatica a comprendere e a gestire;
- L'eccessivo controllo: può generare negli altri una sensazione di distanza emotiva, freddezza o disinteresse e quindi ostacolare la creazione di legami profondi;
2. Emozioni e Salute Mentale
Riuscire a gestire le emozioni ha un impatto significativo sul nostro benessere e sulla nostra salute:
- Capacità di adattamento: intesa come la capacità di una persona di gestire efficacemente le attività quotidiane e rispondere in modo flessibile e appropriato alle sfide e ai cambiamenti della vita come ad esempio affrontare critiche o fallimenti sul lavoro con una prospettiva costruttiva oppure gestire conflitti familiari in modo da creare un ambiente domestico più armonioso;
- Ansia, depressione, disturbi alimentari, e abuso sostanze: la ricerca ha dimostrato che le difficoltà di Regolazione Emotiva hanno una duplice relazione con molti di questi disturbi. Periodi prolungati di disregolazione emotiva possono contribuire alla loro insorgenza o aggravarne i sintomi, rendendo più difficile il recupero [1], [7], [11], [12], [14], [15], [16], [17];
- Disturbi di personalità: intesi come modelli di comportamento rigidi e profondamente radicati, che generano forte disagio e grandi problemi nelle interazioni con gli altri. Questi disturbi si accompagnano spesso alla difficoltà di regolare le emozioni, pertanto questo aspetto dev'essere parte integrante dell'intervento terapeutico [1], [11], [15].
3. Come imparare a gestire le Emozioni?
Data la sua importanza per il benessere e per la Salute Mentale, la Regolazione delle Emozioni è centrale degli interventi di psicoterapia e delle pratiche ad essa correlate. Le tre aree principali su cui è importante intervenire sono le seguenti [5], [13]:
- Cambiare il modo in cui pensiamo a noi stessi e agli altri: ad esempio una persona con problemi nella Regolazione delle Emozioni potrebbe pensare che qualsiasi errore sul lavoro lo renda un fallimento completo. Ciò produce ansia e stress eccessivi e trasforma ogni ostacolo lavorativo in una sfida insormontabile e una minaccia dirette al suo senso di dignità personale. Il lavoro terapeutico in questo caso consiste nell'aiutare il paziente dapprima a identificare queste modalità rigide di pensiero, per poi metterle in discussione e infine sostituirle con modalità più equilibrate e realistiche;
- Modificare i comportamenti che non ci aiutano: come ad esempio l'aggressività e l'isolamento sociale. In questo caso il primo passo dell'intervento consiste nel comprendere lo stretto legame fra le emozioni e comportamenti. Il paziente può imparare a identificare i segnali precoci di stress o di frustrazione e a riconoscere i pensieri che precedono le sue reazioni abituali. A seguire può imparare pian piano a sostituire le reazioni abituali con altre più appropriate. Nei casi in cui l'emozione è soverchiante, ad esempio, può individuare attività calmanti in grado di disinnescare le emozioni, quali ad esempio passeggiare, scrivere o parlare con un amico;
- Accogliere le emozioni invece di evitarle: questo è un elemento cruciale che sta un po' alla base di tutti i problemi di Regolazione delle Emozioni e di tutte le strategie per risolverli. La maggioranza delle persone tende infatti ad evitare le emozioni dolorose e a negare i propri sentimenti, distraendosi nei modi più svariati tra cui il lavoro. In questo caso l'intervento prevede che il paziente impari a dapprima a riconoscere e in seguito, pian piano, ad accogliere le proprie emozioni. Ciò implica un cambiamento fondamentale della relazione con le emozioni: invece di vederle come ostacoli da superare o eliminare, il paziente inizia a considerarle come esperienze preziose, formative e rivelatorie, che possono offrire intuizioni su sé stessi e sulla propria vita.
4. Emozioni e letteratura
La letteratura ha un ruolo cruciale nel permetterci di comprendere le emozioni.
Tra le scrittrici italiane più capaci di esplorare i meandri dell'animo umano c'è senza dubbio Grazia Deledda, unica donna italiana a vincere, nel 1926, il premio Nobel per la Letteratura.
In un testo a lei dedicato [4], la neuropsichiatra Franca Carboni ha notato che i testi della Deledda contenevano già un ricco "atlante emozionale" e una attitudine a prestare attenzione ai "sintomi" presenti in ogni essere umano negli stessi anni in cui la psichiatria e la psicologia stavano muovendo i primi passi:
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"Tutti siamo portatori di sintomi e disponibili con i nostri sintomi, se maltrattati (...), a stare molto male oppure a venirne a capo". [2]
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Uno degli esempi di questa capacità letteraria della Deledda, è "Cosima", una vera e propria autobiografia pubblicata postuma nel 1937. [8]
In "Cosima", Deledda esplora in modo al contempo analitico e compassionevole la vicenda di una delle figure a lei più care, il suo fratello maggiore Santus, il quale si troverà vittima proprio del suo difficile rapporto con le emozioni:
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"Santus (...) si era come incrinato (.,..) come s'incrina ad un urto una tazza di cristallo, un vaso di porcellana…". [8]
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Santus non mancava mai di frequentare il grande fuoco acceso nel frantoio di famiglia:
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"e nonostante la torbida incoscienza in cui spesso affondava, capiva il suo stato, conosceva il cuore del prossimo, e amava solo la compagnia del gruppo di coloro che alla sera lì si radunavano e che formavano un quadro degno di Rembrandt". [8]
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Grazia guardava Santus, che era stato un giovane brillante e avviato ad una carriera da medico e:
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"pensava che solo la pietà può sollevare l'anima piegata dal male (...) e portarla (...) fino alle altissime soglie di un mondo ove un giorno tutti saremo eguali". [8]
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5. Conclusioni
Le emozioni hanno un duplice ruolo: sono ciò che dà significato alla vita ma possono anche essere fonte di sofferenza.
A ben guardare però la sofferenza non dipende solo dalle emozioni in sé ma anche dal modo con cui ci prendiamo cura di esse.
Per godere appieno delle nostre emozioni senza esserne trascinati via, è essenziale conoscerne i meccanismi, prestare loro la dovuta attenzione e capire come intervenire quando lo riteniamo necessario.
Bibliografia:
- American Psychiatric Association (2013): "Diagnostic and statistical manual of mental disorders: DSM- 5". American Psychiatric Publishing. Washington D.C. Trad it. "Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5". Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
- Associazione Paese delle Donne (2021): "Grazia Deledda e il lettino dello psicanalista, saggio". Video intervista disponibile su YouTube.
- Campos J. J., Sternberg C. R. (1981): "Perception, appraisal, and emotion: The onset of social referencing". In Lamb M. E. e Sherrod L. R. (a cura di) "Infant social cognition: Empir-ical and theoretical considerations" (pp. 273−314). Hillsdale: Lawrence Erlbaum Association.
- Carboni F. (2020): "Grazia Deledda e il lettino dello psicanalista". Sardinia4D, Nuoro.
- Chambers R., Gullone E. e Allen N.B. (2009): "Mindful emotion regulation: An integrative review". Clin Psychol Rev. 29 (6), 560-72
- Cicchetti D., Ackerman, B. P. e Izard, C. E. (1995): "Emotions and emotion regulation in developmental psychopathology". Development and Psychopathology, 7, 1−10.
- Coan J. A. e Allen J. J. B. (2004): "EEG asymmetry as a moderator and mediator of emotion". Biological Psychology, 67, 7−49.
- Deledda G. (1937): "Cosima". Fratelli Treves, Milano.
- Gross J. J. (1998): "Antecedent- and response-focused emotion regulation: Divergent consequences for experience, expression, and physiology". Journal of Personality and Social Psychology, 74(1), 224−237.
- Gross J. J. (1998): "The emerging field of emotion regulation: An integrative review". Review of General Psychology, 2, 271−299.
- Gross J. J. e Munoz, R. F (1995): "Emotion regulation and mental health". Clinical Psychology: Science and Practice, 2, 151−164.
- Mennin D. S., Heimberg R. G., Turk C. L. e Fresco D. M. (2002): "Applying an emotion regulation framework to integrative approaches to generalized anxiety disorder". Clinical Psychology: Science and Practice, 9, 85−90.
- Moses E. B. e Barlow D. H. (2006): "A new unified treatment approach for emotional disorders based on emotion science". Current directions in psychological science, 15 (3), 146−150.
- Ochsner K. N. e Gross J. J. (2007): "The neural architecture of emotion regulation". In Gross J. J. (a cura di), "Handbook of emotion regulation" (pp. 87−109), The Guilford Press, New York.
- Repetti R. L., Taylor S. E., e Seeman T. S. (2002): "Risky families: Family social environments and the mental and physical health of the offspring". Psychological Bulletin, 128(2), 330−366.
- Silk J. S., Steinberg L. e Morris A. S. (2003): "Adolescents' emotion regulation in daily life: Links to depressive symptoms and problem behavior". Child Development, 74 (6), 1869−1880.
- Strauman T. J. (2002): "Self-regulation and depression". Self and Identity, 1(2), 151−158.
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18 dicembre: il trauma della migrazione
18 dicembre: il trauma della migrazione
(dott.ssa Vittoria Castagner)
Il 18 dicembre si celebra la Giornata Internazionale dei Migranti. In questo articolo esploriamo il tema della salute mentale dei migranti, con particolare riferimento ai dati disponibili, alle tipologie di disturbi mentali associati alla migrazione e alle cause di tali disturbi nelle diverse fasi della migrazione.
Migrazione e salute mentale
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) stima che in riferimento ai dati relativi al 2020, ci siano circa 281 milioni di migranti internazionali nel mondo, ovvero il 3,6% della popolazione mondiale. Di questi, 26,4 milioni sono rifugiati; 4,1 milioni i richiedenti asilo.
A differenza dei migranti cosiddetti “volontari”, che lasciano il loro paese per un miglioramento della propria condizione socio-economica, i rifugiati sono migranti “forzati”: persone costrette ad abbandonare il proprio paese in quanto vittime di violenza – spesso correlata con la guerra – minacce, persecuzioni, deprivazioni, nonché vittime di carestie ed epidemie.
La costrizione alla migrazione e la frequente esposizione a gravi eventi traumatici, prima ma anche durante il viaggio migratorio, rendono questi soggetti particolarmente vulnerabili dal punto di vista psicologico.
I dati sulla salute mentale dei migranti
Le condizioni di salute mentale dei migranti che approdano sulle nostre coste non sono comunemente oggetto di valutazione.
Uno studio promosso dalla ONG Medici Senza Frontiere effettuato in Sicilia, e pubblicato nel 2017 (Crepet A. et al. 2017), sottolinea proprio questa carenza nel sistema di accoglienza, e riporta dei dati significativi e preoccupanti: tra i 385 migranti che hanno partecipato allo studio – la maggior parte giovani maschi dell'Africa occidentale che avevano lasciato i loro paesi d'origine più di un anno prima dell'arrivo –, il 50% ha ricevuto una diagnosi di disturbo della salute mentale. Il disturbo da stress post traumatico (PTSD) è risultato essere la diagnosi più frequente (31%), seguita da quella di depressione (20%).
Le tre fasi del trauma migratorio
Lo studio evidenza che gli eventi traumatici avvengono sia nel paese d'origine sia durante la migrazione. Dati che trovano conferma in letteratura: rifugiati e migranti, e in particolar modo richiedenti asilo e migranti irregolari, possono infatti essere esposti a diverse esperienze traumatiche nel corso dell’intero processo migratorio.
In questo senso si può parlare di “trauma prolungato multidimensionale”, riferendosi proprio a quell’insieme di esperienze che costellano l’evento migratorio nelle sue diverse fasi.
Non solo il trauma pre-migratorio, ovvero quello vissuto nel contesto d’origine e che ne ha determinato l’abbandono, ma il trauma migratorio in senso proprio, legato alla fuga e al viaggio, è frequente ed è un forte fattore di rischio per lo sviluppo di PTSD e di altri disturbi mentali.
Tra gli eventi potenzialmente traumatici in questa fase è possibile includere la partenza forzata e improvvisa con frequente impossibilità di avvisare le persone care, la permanenza prolungata in campi profughi, i viaggi drammatici, la malnutrizione, l’essere soggetti a malattie non curate, ad aggressioni; essere testimoni della morte dei compagni di viaggio; vittime di sfruttamento e violenze, comprese quelle sessuali; la detenzione nei paesi di transito ed eventuali respingimenti.
La fase post-migratoria è però anche quella in cui i migranti forzati si vengono poi a trovare in un Paese che spesso non hanno scelto, in un contesto culturale molto diverso da quello di provenienza, e che richiede un cambiamento delle abitudini e degli stili di vita spesso all’insegna della precarietà: fattori di per sé traumatogeni.
In questo senso il contesto del paese d’accoglienza si presta a diventare un ulteriore trauma aggiuntivo: nello specifico, è acclarato come l’incertezza e l’insicurezza rispetto all’esito della richiesta di asilo, alla situazione abitativa e alle prospettive di impiego, oltre alla separazione dalla famiglia e alle aspettative per il futuro, impattino sulla salute a prescindere dalla presenza di precedenti traumatizzazioni.
Gli effetti del trauma migratorio
Vivere questo tipo di esperienze può portare allo sviluppo di quadri clinici psichiatrici anche molto gravi, ed è nella fase successiva, quella dell’accoglienza, che la vulnerabilità psicologica si manifesta più frequentemente.
Il quadro sintomatologico che si riscontra maggiormente è per l’appunto di natura post-traumatica: intrusioni diurne e notturne (ricordi/incubi angoscianti del trauma subìto) associate a conseguenti reazioni emotive e fisiche, disturbi del sonno, della memoria, dell’attenzione e della concentrazione, oltre a crisi d’ansia, disturbi depressivi, disturbi somatoformi.
Quando poi il trauma è frutto della violenza umana – come per esempio nei casi di tortura ormai ampiamente documentati – il danno psicologico risulta ancora più radicato: viene minata la fiducia di fondo che regola i rapporti umani, ovvero la possibilità stessa di fare riferimento agli altri, determinando un cambiamento durevole della stessa personalità.
Prendersi cura della salute mentale dei migranti
Nella sua complessità, l’esperienza della migrazione ha forti ripercussioni sulla vita e sulla salute delle persone; le sue implicazioni sono molteplici e necessitano pertanto di un’attenzione che non sia più esclusivamente medica, ma anche psicologica: soprattutto quando traumatica, è un’esperienza che espone al rischio di sviluppare psicopatologie invalidanti.
Valutare e riconoscere questo rischio è il primo passo per un’adeguata accoglienza, affinché il contesto di arrivo possa avere una funzione protettiva e di contenimento rispetto alla sofferenza emotiva di cui ogni migrante può essere portatore.
Bibliografia:
- ANCI et al. (a cura di), "Le dimensioni del disagio mentale nei richiedenti asilo e rifugiati problemi aperti e strategie di intervento", Roma, 2010. (link)
- ANCI et al. (a cura di), Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2015", Roma, 2015. (link)
- A. Crepet et al., "Mental health and trauma in asylum seekers landing in Sicily in 2015: a descriptive study of neglected invisible wounds", in “Conflict and Health” 10.1186/s13031-017-0103-3, 2017. (link)
- M. Danon e A. Miltenburg, "Rifugiati politici e salute mentale". Intervento Tratto Dagli Atti Della Conferenza Internazionale "Una Città Interculturale Da Inventare Esperienze Europee a Confronto", Comune di Padova e Università degli Studi di Padova, 2001. (link)
- International Organization for Migration (a cura di), "World Migration Report 2022", Ginevra, 2021. (link)
- World Health Organization (a cura di), "Report on the health of refugees and migrants in the WHO European Region: No public health without refugee and migrant health", Ginevra, 2018. (link)
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Le impronte della violenza subita
Le impronte della violenza subita
Chi subisce un’aggressione viene sopraffatto da una esperienza che lascia un segno nella possibilità di continuare a vivere serenamente.
La capacità di pensare sé stessi al sicuro, in un ambiente da esplorare e conoscere, per trovare il proprio posto nel mondo, resterà un desiderio che verrà (forse) realizzato con tanta fatica.
Perché?
Moltissimi autori esperti sul tema della violenza riconoscono come essa sia una esperienza che porta il soggetto a disconnettere una parte del Sé per continuare ad "andare avanti".
Cosa vuol dire?
Se hai subito una esperienza psicologica di critica ripetuta, svalutazione di chi sei e/o cosa fai, oppure hai subito una esperienza fisica di molestia/abuso probabilmente sai che sto parlando, di cosa è accaduto dopo quell’evento in cui ti sei trovato di fronte a qualcuno che ha invaso il tuo spazio di sicurezza.
Magari eri piccolo o più adulto, resta comunque qualcosa dentro di te che Blocca la tua possibilità di sentirti Libero di proseguire nel cammino della tua vita.
Qualcuno ti dirà "hai bassa autostima" oppure "se vuoi davvero una cosa è sufficiente tanto impegno e sacrificio e poi vedrai: riuscirai".
Sappi che non è così.
Per quanto tu sia capace di impegnarti e determinato verso un obieƫtivo, fino a quando quella esperienza non sarà stata "digerita" dal tuo cervello tutta la tua energia psichica non potrà scorrere liberamente: una parte di essa resterà a monitorare che il Blocco sia lì, a Proteggerti dal dolore che tu hai provato e che riprovi ogni volta che il ricordo di quell’evento torna in mente.
Questo che succede è normale: capita che un po’ si pensi alla sofferenza che si sta provando e un po’ si tenti di evitarla, distraendosi.
Prova ad immagine di camminare sulla sabbia, lasciando impronte dei tuoi passi. Immagina di voltarti dopo un po’ e noterai che le impronte sono ancora lì.
La loro forma resta e segna un ricordo nella tua mente.
Se il passo è ricco di emozioni dolorose, sarà faticoso immagazzinarlo/digerirlo nella memoria del cervello, così ogni tanto (o spesso) tornerà a presentarsi nella mente: come se il "guardiano" che "blocca" questo ricordo ogni tanto si addormentasse e quel ricordo riuscisse a scappare da quel "controllo".
Quel guardiano è lì per proteggerti da quella sofferenza, ma ha un costo: l’energia che serve per tenerlo lì.
Le esperienze traumatiche, quelle che lasciano questo tipo di impronte, possono essere elaborate/digerite, nei percorsi di psicoterapia che utilizzano, ad esempio, il Protocollo EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
Imparare a conoscere i processi che bloccano lo scorrere della nostra energia vitale e trovare come poter vivere, non sopravvivere, dopo un'esperienza violenta sono ciò che ognuno merita nel proprio Libero cammino.
Bibliografia:
- Clara Mucci: "Trauma e Perdono", Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
- Jean-Paul Mugnier: "L’abuso sessuale in famiglia", Raffaello Cortina Editore, Milano, 2022
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Amare troppo: la dipendenza affettiva
Amare troppo: la dipendenza affettiva
Con il termine Dipendenza affettiva si fa riferimento a una forma d’amore patologica e disfunzionale in cui la persona dedica tutta sé stessa al proprio oggetto d’amore trascurando aspetti fondamentali della propria vita e occupandosi / preoccupandosi solo dei bisogni dell’altro.
Si tratta di una forma di amore disadattiva che porta il soggetto ad avere un’attenzione ossessiva e morbosa nei confronti del partner di cui non riesce a fare a meno, malgrado le conseguenze negative.
Il dipendente affettivo sperimenta una perdita di controllo sul proprio comportamento e ricerca continuamente il partner con lo scopo di sperimentare sensazioni piacevoli.
I suoi pensieri, le sue emozioni e i suoi comportamenti sono focalizzati sul partner che diviene il centro della propria vita e in assenza del quale sperimenta agitazione, angoscia o rabbia.
La relazione sentimentale è vissuta come un modo per riempire i vuoti affettivi sperimentati durante l’infanzia e per appagare bisogni primari trascurati. Essa diviene sempre più centrale e pervasiva fino a rappresentare il modo tramite il quale il dipendente affettivo conferisce un senso alla propria vita.
Dipendenza affettiva e psicologia:
Anche se il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM5) non fa riferimento al costrutto di Dipendenza affettiva, alcuni autori (Valleur & Matysiak, 2004; Carretti & la Barbera, 2005) hanno proposto di classificare la Dipendenza affettiva tra le "New addictions", ossia le nuove dipendenze comportamentali quali ad esempio la dipendenza da internet e il gioco d’azzardo patologico.
Il concetto di dipendenza affettiva entra a far parte del lessico psicopatologico italiano circa alla fine degli anni 80 grazie al libro "Donne che amano troppo" di Robin Norwood, un libro che è diventato una pietra miliare per le donne che soffrono, che amano in modo incondizionato i loro partner, fino al punto di rinunciare a essere sé stesse ed entrando così in una spirale di amore-dipendenza dalla quale è difficile uscire.
Cause della dipendenza affettiva:
Come mai le persone, anche se razionalmente comprendono che il partner non è adeguato, fanno fatica a lasciarlo e diventano succubi dei suoi voleri?
Le motivazioni delle persone coinvolte in un problema di Dipendenza affettiva emergono dall’analisi della loro storia di vita e dalle loro modalità tipiche di pensiero, in particolare:
- la provenienza da una famiglia in cui sono stati trascurati i bisogni emotivi durante lo sviluppo;
- una storia familiare caratterizzata da carenza di affetto autentico;
- la tendenza a ri-attribuirsi nella propria vita di coppia un ruolo simile a quello vissuto con i propri genitori;
- l’assenza durante l’infanzia della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza.
Tali motivazioni sono alla base del bisogno di controllare in modo ossessivo, la relazione e il partner.
Il partner si trasforma in qualcosa di indispensabile, da mantenere ad ogni costo, anche quando si è pienamente consapevoli del dolore che la relazione genera e dell’insoddisfazione che si prova. Il prezzo da pagare diventa il sacrificio dei propri bisogni ed in alcuni casi della propria dignità.
Da situazione in grado di generare piacere, di appagare e gratificare, la relazione sentimentale può diventare qualcosa a cui diventa impossibile rinunciare.
Siamo di fronte ad un vero e proprio meccanismo di dipendenza, simile alla dipendenza da sostanze o dal gioco d’azzardo. Infatti, come le persone che fanno uso di sostanze/gioco patologico, coloro che “amano troppo” sperimentano sensazioni di euforia che portano a rinforzare il comportamento di dipendenza. Gradualmente però l’euforia svanisce e viene rimpiazzata da sensazioni di vuoto ed insoddisfazione se l’amore non è ricambiato.
La dipendenza affettiva e la dipendenza da sostanze o dal gioco d'azzardo hanno in comune anche il “senso di urgenza”. Infatti, nonostante si ritenga ragionevole interrompere il comportamento dannoso, nei fatti non si riesce e tale comportamento di dipendenza può essere portato avanti anche quando la relazione amorosa è finita.
La dipendenza affettiva è l’opposto di una relazione sana e matura:
In una relazione sana la persona entra ancora più in contatto con sé stessa, con la propria realizzazione e con i propri bisogni;
Nella dipendenza affettiva invece la persona
- perde il contatto con sé stessa divenendo vittima della compulsione amorosa;
- si sente inadeguata e non degna di essere amata;
- vive nel costante terrore di essere abbandonata dal partner;
- è tendenzialmente disponibile ed accudente, pronta a sacrificarsi e si illude, così facendo, di rendere la relazione stabile e duratura.
Più il partner è sfuggente, freddo, distante o percepito come tale, più la persona con dipendenza affettiva si sacrifica fino ad annullarsi, si colpevolizza, si mette in discussione e lo rincorre esattamente come fanno i giocatori d’azzardo che “rincorrono la perdita” e non riescono a smettere di giocare.
A volte, a causa di un torto da parte del partner, la rabbia può momentaneamente spingere chi soffre di dipendenza affettiva a dire basta e a chiudere la relazione, ma inevitabilmente i sintomi dell’astinenza (depressione e incapacità di provare piacere, ansia e sensazioni di vuoto) spingono a perdonare e giustificare il partner, rientrando così nel circolo vizioso della dipendenza.
Questo comporta nell’immediato una percezione di sollievo e benessere, ma con il passare del tempo la sofferenza sostituisce il piacere compromettendo il funzionamento individuale con riduzione delle altre attività (lavorative, ricreative e sociali).
Trattamento della dipendenza affettiva:
Il percorso terapeutico in tali casi ha come obiettivo la cessazione delle condotte di dipendenza. A tale fine il terapeuta dovrà fare in modo che il paziente arrivi a raggiungere i seguenti sotto-obiettivi:
- comprendere il proprio funzionamento;
- conoscere come si manifesta la dipendenza affettiva;
- costruire una sufficiente motivazione al cambiamento;
- riconoscere e gestire i suoi stati emotivi spiacevoli;
- ristrutturare i suoi pensieri e credenze;
- eliminare le strategie di coping disfunzionali;
- comprendere l’importanza del rimuginìo desiderante e della ruminazione nel mantenimento del disturbo;
- incrementare le sue risorse al fine di avere una vita degna di essere vissuta.
L'importanza della Mindfulness nelle relazioni
Da queste premesse si capisce quanto sia forte il legame tra relazioni interpersonali e benessere. Data la natura profondamente sociale dell’essere umano, avere delle relazioni sane e positive con gli altri è fondamentale per coltivare fiducia e costruire direzionalità nella propria vita.
La Mindfulness è un prezioso alleato per migliorare le nostre relazioni, poiché, oltre ad offrirci un base per sviluppare consapevolezza e stabilità interna, può insegnarci ad ascoltare e osservare in modo aperto sia noi stessi che gli altri quando entriamo in contatto con il mondo esterno.
Martedì 29 ottobre inizierà il percorso "Mindfulness e Relazioni", tenuto dal Dott. Alberto Chiesa. Obiettivo del percorso è aiutare anche i praticanti con esperienza moderata o nulla di meditazione a riconoscere e regolare le proprie emozioni nei contesti relazionali e capire quanto la loro espressione sia fluida, iperattiva o inibita nel rapporto con gli altri.
Riferimenti bibliografici:
- Carretti & la Barbera, 2005: Alessitimia, valutazione e trattamento;
- Helen E. et al, 2016: Amore romantico, una dipendenza naturale?;
- Lebruto et al., 2022: Dipendenza affettiva;
- Maglia MG et al., 2023: Love Addiction;
- Robin Norwood, 2013: Donne che amano troppo;
- Valleur & Matysiak, 2004: Sesso, passione e videogiochi;
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Disturbo da shopping compulsivo: cause, sintomi, trattamento e consigli per la gestione
Il disturbo da shopping compulsivo (compulsive buying disorder o CBD) è un disturbo caratterizzato da un bisogno irrefrenabile e persistente di fare acquisti, che porta a comportamenti di spesa eccessiva e compulsiva. Questo disturbo può avere un impatto significativo sulla vita di una persona, portando a problemi finanziari, relazionali e emotivi. In questo articolo, esploreremo la definizione del compulsive buying disorder, le sue cause, i sintomi associati, i possibili rimedi, il trattamento disponibile e i consigli per la gestione di questa condizione.
Definizione del disturbo da shopping compulsivo
Il CBD si manifesta attraverso una compulsione incontrollabile a fare acquisti. Le persone affette da questo disturbo sperimentano una sensazione di euforia e gratificazione durante l'atto dello shopping, ma spesso si trovano a vivere sensi di colpa, rimorso e stress dopo aver effettuato gli acquisti. Questo ciclo continuo di compulsione e rimorso può creare un circolo vizioso difficile da interrompere.
Cause del disturbo da shopping compulsivo
Le cause esatte del CBD non sono ancora del tutto chiare. Tuttavia, diversi fattori possono contribuire all'insorgenza di questa condizione. Alcuni dei fattori proposti includono:
- Problemi emotivi: il disturbo da lo shopping compulsivo può fungere da meccanismo di coping (adattamento) per affrontare l'ansia, la depressione o lo stress.
- Bassa autostima: le persone con bassa autostima possono utilizzare gli acquisti come mezzo per migliorare temporaneamente la propria immagine di sé.
- Pressioni sociali: la società consumistica in cui viviamo esercita un'enorme pressione per l'acquisto di beni materiali, e le persone possono essere influenzate da questo contesto.
- Disturbi psicologici concomitanti: il disturbo da lo shopping compulsivo può essere associato ad altri disturbi come il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), il disturbo bipolare o la dipendenza da sostanze.
Sintomi del disturbo da shopping compulsivo
I sintomi del CBD possono variare da persona a persona, ma alcuni segnali comuni possono includere:
- Spese incontrollabili: le persone affette da questo disturbo fanno acquisti in modo impulsivo e incontrollato, spesso acquistando oggetti non necessari o di cui non hanno bisogno.
- Sensi di colpa e rimorso: dopo gli acquisti, le persone affette da questo disturbo sperimentano sensi di colpa, rimorso e dispiacere per il denaro speso eccessivamente.
- Problemi finanziari: le spese eccessive possono portare a problemi finanziari significativi, come debiti accumulati o difficoltà nel pagare le bollette.
- Disturbi emotivi: il disturbo da shopping compulsivo può causare stress, ansia e depressione a causa delle conseguenze negative che comporta.
Trattamento del disturbo da shopping compulsivo
Affrontare il CBD richiede un approccio multidisciplinare che coinvolge diversi aspetti della vita di una persona. Alcuni dei possibili rimedi e trattamenti includono:
- Consulenza psicologica: la terapia individuale o di gruppo può essere utile per esplorare le cause profonde del disturbo da shopping compulsivo e sviluppare strategie per affrontarlo.
- Gestione dello stress: imparare tecniche di gestione dello stress come la mindfulness, lo yoga o l'esercizio fisico può aiutare a ridurre l'ansia e l'impulso verso gli acquisti compulsivi.
- Controllo del budget: creare un piano finanziario dettagliato e mantenere un controllo rigoroso delle spese può aiutare a prevenire gli acquisti impulsivi.
- Supporto sociale: coinvolgere amici e familiari di fiducia può offrire un supporto emotivo durante il percorso di guarigione.
Gestione e consigli
Oltre al trattamento professionale, ci sono alcuni consigli che possono aiutare a gestire il CBD:
- Identificare i trigger: prestare attenzione ai fattori scatenanti che possono portare a una spesa compulsiva, come lo stress o l'ansia, e sviluppare strategie alternative per affrontarli.
- Ritardare gli acquisti impulsivi: prendersi del tempo prima di effettuare un acquisto impulsivo può aiutare a ridurre l'impulso e dare modo di riflettere sulle reali necessità.
- Ridurre l'esposizione agli stimoli: limitare l'esposizione a pubblicità e situazioni che promuovono lo shopping compulsivo può aiutare a ridurre la tentazione.
- Cercare supporto: unirsi a gruppi di supporto o comunità online con persone che condividono la stessa esperienza può fornire un ambiente di sostegno in cui condividere esperienze e strategie di gestione.
Conclusioni
Il disturbo da shopping compulsivo può avere un impatto significativo sulla vita delle persone che ne soffrono. Tuttavia, con il giusto trattamento, il supporto sociale e la consapevolezza dei propri comportamenti, è possibile gestire e superare questa condizione. È importante ricordare che ogni persona è unica e che il percorso di guarigione può richiedere tempo e pazienza. Con il supporto adeguato, è possibile affrontare il disturbo da shopping compulsivo e ritrovare il controllo sulla propria vita finanziaria e emotiva.
Nuovi approcci al trattamento dell'obesità
L’evoluzione del genere umano ha visto un’importante trasformazione dello stile di vita alimentare in termini di quantità, qualità e dispendio energetico. Diversamente dalla facilità di accesso che oggigiorno abbiamo al cibo, i nostri antenati vivevano periodi di scarsa disponibilità o quasi digiuno alternati a periodi di maggior alimentazione. Essa era basata prevalentemente su un alto contenuto di proteine di origine animale, in occasione di caccia favorevole, un medio o basso contenuto di grassi, scarsità di zuccheri semplici ed elevato apporto di fibre e le quantità erano direttamente proporzionali al dispendio energetico necessario al procurarsi il pasto. Aspetto quest’ultimo ben lontano dall’uomo dell’ultimo secolo che, con l’avvento di facilitazioni (quali i mezzi di trasporto) e di abitudini alimentari a favore di cibi pronti ad elevato contenuto di grassi e zuccheri semplici, vede un aumento più che un dispendio dell’introito calorico.
Negli ultimi anni, inoltre, si sta assistendo a una notevole riduzione del tempo trascorso in cucina e parallelamente a una crescente tendenza a consumare pasti fuori casa (mense, ristoranti, rosticceria, ecc) con ripercussioni sulla salute di molte persone. Spesso infatti il cibo che si mangia fuori e i pasti pronti sono significativamente più ricchi di calorie, grassi, sale e zuccheri rispetto ai cibi preparati in casa e questi cambiamenti facilitano l’accumulo eccessivo di scorte energetiche, sotto forma di tessuto adiposo, contribuendo allo sviluppo di una vera e propria esplosione epidemica del sovrappeso e dell’obesità tanto nell’infanzia quanto nell’età adulta. I numeri contenuti nel report WHO European Regional Obesity Report 2022 non sono incoraggianti: in Europa il 59% degli adulti e quasi un bambino su 3 è in sovrappeso o convive con l’obesità.
Sebbene in alcuni contesti continui ad esistere una riduzione semplicistica del problema obesità alla mancanza di volontà del paziente come unico ostacolo alla buona riuscita del trattamento e del perdere peso - con un conseguente rinforzo di sensi di colpa preesistenti (Carels, Cacciapaglia, Douglass, Rydin & O’Brien, 2003) e di stigma, cause queste di un aumento della frequenza di comportamenti disfunzionali quali abbuffate, riduzione dell’esercizio fisico, ritiro sociale e evitamento della richiesta d’aiuto a specialisti (Puhl, Himmelstein, & Quinn, 2018) - è ormai risaputo che affrontare gli aspetti di natura emotiva, cognitiva e comportamentale connessi alla perdita e al mantenimento del peso è fondamentale per una buona riuscita (Calugi et al., 2020).
Per tali ragioni molti interventi di salute pubblica hanno tentato di rendere i pasti fuori casa più sani possibili (Todd et al., 2010). Sembrerebbe tuttavia che da soli non siano sufficienti e che il declino della cucina casalinga possa essere altresì responsabile di un aumento dell’obesità. Alcuni risultati in letteratura hanno dimostrato infatti che i cambiamenti nel modo di preparare e cucinare i cibi, legati anche all’integrazione della tecnologia nel preparare il cibo a casa (es. il forno a microonde) e di prodotti alimentari pronti per facilitare la preparazione dei pasti (Caraher et al., 1999; Soliah et al., 2012), possono influenzare sia le abilità culinarie degli individui che le conoscenze culinarie.
Partendo quindi dal presupposto che cucinare a casa è associato a una qualità migliore dell’alimentazione, e a tal proposito alcuni autori segnalano appunto un’associazione tra la cucina casalinga e un indice di massa corporea (BMI) minore (Kolodinsky & Goldstein, 2011), e che l’avere buone abilità e conoscenze culinarie è legato ad abitudini alimentari più sane (Condrasky, 2006), i recenti interessi si stanno orientando verso l’individuazione e l’introduzione di nuovi elementi che possano essere d’aiuto al trattamento dell’obesità.
Può un corso di cucina raggiungere quest’obiettivo? Gli studi recenti incoraggiano ad andare in questa direzione: aggiungere corsi di cucina a un trattamento comportamentale per l’obesità sviluppa abilità culinarie che garantiscono la perdita del peso, il suo mantenimento e la qualità della dieta. Generalmente questo tipo di interventi vengono combinati con altre componenti (dieta accordata con un dietologo, esercizio fisico,mindfulness) e sono variabili sia nella durata che nell’impegno dei partecipanti: alcuni prevedono l'apprendimento tramite osservazione altri tramite esperienza attiva. Ad oggi non abbiamo a disposizione interventi che valutino solo l’efficacia di lezioni culinarie e non è quindi ancora chiaro se la cucina produca da sè degli effetti nel dimagrimento o solo se combinata con altre componenti, ma sono sicuramente ben chiari gli effetti a favore.
A tal proposito, nel 2020 Alpaugh e colleghi hanno condotto uno studio con l’obiettivo di determinare se l’aggiunta di lezioni di cucina ad un intervento comportamentale per perdere peso avrebbe aumentato la perdita di peso e la qualità della dieta rispetto ad un intervento standard e di valutare i cambiamenti nelle abitudini alimentari e la frequenza del cucinare.
Sono stati reclutati 56 partecipanti, obesi o sovrappeso, sottoponendoli ad un trattamento comportamentale di perdita di peso della durata di 24 settimane basato prevalentemente su dieta ed esercizio fisico. Successivamente il campione è stato suddiviso in due gruppi: uno ha ricevuto un intervento di cucina attiva, l’altro è stato sottoposto ad un intervento dimostrativo. Dopo sei mesi, i risultati hanno mostrato che i partecipanti coinvolti nel trattamento attivo hanno perso significativamente più peso rispetto a quelli del trattamento dimostrativo (7.3% contro 4.5%) suggerendo quindi che un intervento di cucina attiva unito ad un programma di perdita di peso standard può essere un metodo efficace per aiutare le persone a perdere peso e a dedicare più tempo alla cucina casalinga. Gli interventi dimostrativi, infine, sebbene non aiutino direttamente a perdere il peso, possono portare comunque notevoli miglioramenti nella food agency e in un’alimentazione più sana ed equilibrata (Alpaugh et al., 2020).
Dott.ssa Giglio Francesca
Bibliografia
Alpaugh M., Pope L., Trubek,A., Skelly, J., & Harvey, J. (2020). Cooking as a health behavior: examining the role of cooking classes in a weight loss intervention. Nutrients, 12(12), 3669.
Calugi S., Sermattei S., Sartirana M., Camporese L., Filardo D., Campagna S., & Dalle Grave, R. (2020). Il ruolo dello psicologo nella gestione dell’obesità: Position Paper di AIDAP
Caraher M. Dixon P. Lang T., & Carr‐Hill R. (1999). The state of cooking in England: the relationship of cooking skills to food choice. British food journal.
Carels R. A., Cacciapaglia H. M., Douglass O. M., Rydin S., & O’Brien W. H. (2003). The early identification of poor treatment outcome in a women’s weight loss program. Eating Behaviors, 4(3), 265-282.
Condrasky, M. (2006). Cooking with a Chef. Journal of Extension, 44(4), 1-6.
Kolodinsky J.M., & Goldstein A.B. (2011). Time use and food pattern influences on obesity. Obesity, 19(12), 2327-2335.
Puhl R. M., Himmelstein M. S., & Quinn D. M. (2018). Internalizing Weight Stigma: Prevalence and Sociodemographic Considerations in US Adults. Obesity (Silver Spring), 26(1), 167-175.
Soliah L.A.L., Walter J.M., & Jones S.A. (2012). Benefits and barriers to healthful eating: what are the consequences of decreased food preparation ability?. American Journal of Lifestyle Medicine, 6(2), 152-158.
Todd J.E., Mancino L., & Lin B.H. (2010). The impact of food away from home on adult diet quality. USDA-ERS economic research report paper, (90).
L'ansia è un'emozione complessa
L'ansia è un'emozione complessa
I disturbi d’ansia rappresentano il problema singolo della salute mentale più ampio degli Stati Uniti (Barlow, 2002) e più di 19 milioni di americani adulti hanno un disturbo d’ansia ogni anno (National Institute of Mental Health, 2001).
L’Italia non si mostra molto lontana da questo panorama. Oltre un soggetto su cinque può andare incontro a un disturbo d’ansia nell’arco della vita si legge sul sito del Policlinico Gemelli di Roma e, nel nostro Paese, quasi un milione di persone soffre di attacchi di panico (Istat, 2006).
La letteratura internazionale registra una presenza significativamente maggiore di circa 23 volte in più nelle donne rispetto agli uomini e una percentuale di presenza di panico nell’intera vita che sembra variare tra l’1,5% e il 3/3,5 % (APA, 2014).
L’ansia è un’emozione complessa che coinvolge aspetti fisiologici (es. sudorazione, vertigini, palpitazioni, vampate di calore, formicolii), cognitivi (paura di perdere il controllo, di morire, di impazzire, scarsa memoria, distraibilità), comportamentali (fuga, evitamento, congelamento) e emotivi (tensione, agitazione, nervosismo, paura, irritabilità) del funzionamento umano (Clark & Beck, 2010).
Da un punto di vista antropologico essa, insieme alla paura, ha da sempre permesso la sopravvivenza degli individui di fronte a situazioni pericolose per sé e per la specie ed è da considerarsi assolutamente funzionale all’esistenza: un’eliminazione totale non è né possibile né auspicabile.
Qualora i suoi livelli oltrepassino un range di normalità e tolleranza, tali da interferire con il proprio funzionamento quotidiano, è tuttavia indicato intervenire. E’ il caso per esempio dell’attacco di panico: breve episodio (da pochi minuti a massimo mezz’ora) di ansia intollerabile, di intensa paura o terrore, che insorge improvvisamente.
Esso è accompagnato da sintomi somatici e cognitivi e dalla sensazione di pericolo imminente e/o mortale e spinta alla fuga.
Il ricco quadro sintomatologico, che in linea generale raggiunge la massima intensità in circa dieci minuti, sfugge al controllo di chi lo vive e vede una grossa attivazione neurovegetativa, che coinvolge principalmente l’apparato cardiorespiratorio (producendo sensazioni per esempio di soffocamento, vampate di calore, costrizione toracica o palpitazioni), l’apparato urinario (es. impellente bisogno di urinare), quello gastrointestinale (es. diarrea, nausea) e sintomi neurologici (es. tremori) e cognitivi (es. paura di morire, paura di impazzire). Generalmente, una condizione di spossatezza, sensazione di testa vuota e possibili vertigini successive lo seguono.
Affinché si possa diagnosticare un Disturbo di panico è necessario che si verifichino ricorrenti e inaspettati attacchi di panico seguiti, per almeno un mese, dalla costante preoccupazione di avere un nuovo episodio o delle conseguenze che ne possano derivare (APA, 2014).
L’esordio del Disturbo di Panico avviene con un attacco di panico improvviso e inaspettato, il quale sembra comparire senza che via sia un elemento scatenante; può, infatti, presentarsi in momenti di tranquillità, nel corso di attività quotidiane (al supermercato, in ascensore, in metro, in autobus, ecc) o addirittura nel sonno.
“Di notte improvvisamente mi sono svegliata, mi mancava il respiro, mi sentivo soffocare. Dovevo prendere assolutamente ossigeno e sono corsa fuori…Ma la situazione non si è calmata, anzi peggiorava sempre più. Mi mancava il fiato, sentivo un dolore al petto e ho pensato che stessi per morire”.
L’intero quadro sintomatologico viene vissuto come un’esperienza drammatica, le cui connotazioni rimangono ben vivide nella mente della persona che lo ha sperimentato tanto che, di fronte alla costante preoccupazione di un loro ripresentarsi (ansia anticipatoria), si mettono in atto una serie di comportamenti che pian piano vanno ad interferire con la qualità di vita e l’adattamento socio-lavorativo. Condotte di evitamento e ricerca di rassicurazioni (per es. presenza di una figura protettiva, bottiglia d’acqua, ansiolitici, sedersi vicino alle uscite) diventano un modo per gestire e per proteggersi dalle conseguenze dannose temute. All’inizio sono relative ai posti in cui si sono scatenati gli attacchi di panico, pian piano si estendono a tutta una serie di situazioni in cui, per esempio, potrebbe risultare imbarazzante gestire la crisi o difficile trovare un aiuto immediato.
Attualmente il Disturbo di panico viene trattato o con una psicoterapia o con una terapia farmacologica o con combinazione tra queste. Grazie all’utilizzo di protocolli standardizzati, su cui esistono in letteratura numerosi studi che ne dimostrano la validità e l’efficacia, la Terapia cognitivo-comportamentale rappresenta uno degli approcci di elezione nel trattamento (Pompoli et al., 2016).
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Disturbo dipendente di personalità
Disturbo dipendente di personalità
Disturbi di personalità
Per disturbo di personalità si intende “una configurazione pervasiva del carattere di una persona, che rappresenta un’organizzazione difensiva rispetto ai vissuti soggettivi di sofferenza, rispetto agli stress relazionali ed esistenziali, rispetto alle sfide evolutive; essa è caratterizzata da un funzionamento ripetitivo, per lo più non funzionale, proprio per il tipo rigido di risposta che viene messo in atto” (Selvini M. & Sorrentino A.M., 2004).
Secondo il DSM, i disturbi di personalità sono raggruppati in tre tipi differenti cluster sulla base dei tratti che li caratterizzano:
- Cluster A : personalità bizzarra
- Cluster B: impulsivi e drammatici
- Cluster C: personalità ansiosa
Disturbo dipendente di personalità
All'interno del Cluster C – che racchiude le personalità ansiose – sono inclusi tre disturbi: il disturbo evitante, dipendente e ossessivo compulsivo di personalità.
Secondo il DSM 5 il disturbo dipendentedi personalità è caratterizzato da almeno 5 di questi sintomi:
- Difficoltà a prendere decisioni quotidiane senza il ricorso a suggerimenti, rassicurazioni e consigli da parte degli altri.
- Richiesta agli altri di assumersi responsabilità che dovrebbero spettare a loro
- Paura di essere in disaccordo con gli altri e rischiare disapprovazione
- Difficoltà a iniziare progetti senza il supporto di altri
- Eccessivo bisogno di protezione e supporto da parte di altri, anche permettendo ad altri di imporre loro stessi piuttosto che rischiare il rifiuto o la disapprovazione
- Sentirsi vulnerabili e indifesi quando soli
- Cercare disperatamente una relazione non appena ne è terminata una
- Preoccupazione irrealistica di essere lasciati soli e di non essere in grado di prendersi cura di se stessi
Secondo l’American Psichiatric Association (APA, 1994), la personalità dipendente è caratterizzata da “una situazione pervasiva ed eccessiva di necessità di essere accuditi, che porta a un comportamento sottomesso e timoroso della separazione”.
Persone con personalità dipendente hanno infatti tipicamente una visione di sé come persona incompetente, incapace di provvedere da sola a se stessa, ma nonostante ciò degna di attenzione e guida degli altri; e una visione degli altri come persone fonte di protezione e guida (“Solo gli altri hanno le capacità per ottenere soddisfazioni nella vita”), ma anche di possibile abbandono.
Tali visioni di sé e degli altri portano quindi la personalità dipendente a comportamenti volti a mantenere l’altro vicino e ad evitare il rifiuto. Tipico infatti delle persone con questo disturbo è il ricorso ad atteggiamenti compiacenti per ottenere la vicinanza dell'altro.
Alla base vi è la credenza per cui la persona ha necessariamente bisogno dell’altro, perciò l’eventualità che debba prendere una decisione o assumersi una responsabilità o che si possa rompere la relazione con la figura di riferimento sono fonte di forte ansia.
La strutturazione di tale disturbo di personalità sembra essere collegato a uno stile genitoriale iperprotettivo e/o autoritario (Bornstein, 1993,2005), in cui spesso i genitori rispondono a movimenti di autonomia del bambino con critiche e scarsa approvazione, e a forme di attaccamento ansioso ambivalente (Brennan, Shaver, 1998), tipico delle diadi bambino-genitore in cui il caregiver (di solito il genitore) risponde ai bisogni del bambino in maniera discontinua e non prevedibile.
Il lavoro con i pazienti con disturbo dipendente di personalità deve necessariamente partire dall'accompagnamento della persona verso il riconoscimento autonomo dei propri desideri, al fine di attivare e promuovere le prime forme di autonomia. Questi pazienti hanno infatti una visione per cui il raggiungimento di una propria autonomia costituisce una minaaccia di rottura delle relazioni significative, perciò per loro questo rischio risulta altamente inaccettabile e fonte di angoscia: i paziente rimangono in una condizione di estrema accondiscendenza verso l'altro e adesione alle sue vedute senza esporre o valorizzare le proprie. Importante è pertanto aiutare il paziente a sperimentare che una maggiore autonomia non rappresenta necessariamente una condizione di rottura delle relazioni significative. Inoltre è importante accompagnare il paziente verso lo sviluppo di un maggiore senso di efficacia personale e di gestione della sensazione di vuoto, della paura dell’abbandono e della sensazione di impotenza ed inadeguatezza che spesso sperimentano a contatto con gli eventi di vita quotidiana.
Il disturbo dipendente di personalità è caratterizzato da un insieme di aspetti comuni anche ad altri disturbi, perciò per il professionista risulta essere estremamente importante prestare attenzione ad una corretta diagnosi differenziale. Nello specifico tale disturbo ha caratteristiche comuni ai seguenti altri disturbi di personalità:
- Disturbo evitante di personalità: i pazienti con disturbo dipendente cercano attivamente di mantenere la relazione con le figure di riferimento significative, mentre i pazienti evitanti hanno timore di essere rifiutati e provano spesso vergogna verso l'altro, motivo per cui tendono ad avere atteggiamenti di approccio all'altro solo se hanno la certezza di essere apprezzati
- Disturbo borderline di personalità: i pazienti evitanti e dipendenti hanno in comune la paura dell'abbandono, alla quale però rispondono in maniera differente: pazienti evitanti usano un atteggiamento accondiscendente mentre i pazienti borderline rispondono con rabbia e comportamenti manipolatori
- Disturbo istrionico di personalità: in entrambi i disturbi si ricerca attivamente la ricerca dell'altro, con la differenza che nel caso del disturbo evitante questo avviene tramite atteggiamento accondiscendente, mentre nel disturbo istrionico tramite atteggiamento di ricerca di attenzione costante.
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Altro...
Psicoterapia del Disturbo Borderline di Personalità
Psicoterapia del Disturbo Borderline di Personalità
Un modello integrato di psicoterapia individuale e di gruppo
I pazienti con Disturbo Borderline di Personalità presentano quadri clinici caratterizzati da una intensa incapacità alla regolazione delle emozioni, dei comportamenti e delle relazioni interpersonali che determinano una compromissione dell'adattamento psicosociale e difficoltà a mantenere in modo valido e stabile la relazione terapeutica.
È stato necessario mettere a punto strategie specifiche ed efficaci che formulino un progetto di psicoterapia mirato.
In questi pazienti gravi si è ipotizzato che si attivi nella relazione terapeutica inevitabilmente il Sistema d'Attaccamento data la sofferenza e l’innata conseguenza del bisogno di aiuto.
Nell'ipotesi ulteriore e frequente di un attaccamento disorganizzato questo porterebbe ad una relazione terapeutica disfunzionale con esiti di iper-coinvolgimento, burn-out del terapeuta e conseguente drop-out del paziente.
Modi possibili per proteggere la relazione terapeutica
Negli ultimi 10 anni sono stati pubblicati studi controllati secondo i quali, al di là delle diverse correnti teoriche psicoterapeutiche , l'intervento più veloce ed efficace prevede l'adottare setting multipli, ossia psicoterapia individuale e di gruppo e terapia psicofarmacologica.
Tale intervento integrato si è mostrato più efficace del cosiddetto “intervento usuale” che prevede ricovero ospedaliero, terapia farmacologia, successiva presa in carico ambulatoriale per sostegno psicologico.
I modelli di intervento sono altamente strutturati e standardizzati, prevedono la presenza di due terapeuti in setting distinti ma integrati e coerenti tra loro che permettono di diluire la carica emotiva e rispondere “alla molteplicità con la molteplicità “.
Bibliografia
- Fassone et al. (2003): Rivista di Psichiatria 2003, 38, 5
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La musica metal è veramente così dannosa?
La musica è una forma di media ampiamente disponibile con la capacità di influenzare gli atteggiamenti e manipolare le emozioni e gli ascoltatori sono attratti dalla musica che riflette o migliora il loro stato emotivo.
Heavy metal, emotivo (emo), hardcore, punk e ciascuno dei loro sottogeneri formano la categoria della musica “estrema" che è caratterizzata da suoni caotici, forti, pesanti e potenti, con voci emotive, spesso contenenti temi di ansia, depressione, isolamento sociale e solitudine. Forse, a causa di queste caratteristiche musicali, è stato affermato che la musica estrema porta alla rabbia e ad espressioni come aggressività, delinquenza, uso di droghe e atti suicidi e può attivare comportamenti aggressivi. È ugualmente plausibile, tuttavia, che la musica estrema possa essere scelta quando un ascoltatore è arrabbiato, perché la natura eccitante della musica può corrispondere all'eccitazione interna già presente dell'ascoltatore e consentire a lui / lei di esplorare ed elaborare questo stato emotivo.
In questo studio c'erano 40 persone, di età compresa tra 18 e 34 anni, ai partecipanti fu richiesto di ascoltare uno o più generi musicali estremi, come heavy metal, punk, hardcore e screamo, e ascoltare questi generi per almeno il 50% del tempo in cui ascoltavano musica. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale alla musica o alle condizioni di controllo prima dell'inizio dello studio.
Per evitare influenze estranee sulla frequenza cardiaca, ai partecipanti è stato chiesto di astenersi dal fumare, fare esercizio fisico e bere bevande alcoliche e contenenti caffeina per almeno 3 ore prima di partecipare (ciò è stato controllato con domande nel questionario). Per la registrazione della frequenza cardiaca di base, ai partecipanti è stato fornito un diagramma e le istruzioni su come attaccare gli elettrodi di registrazione, quindi è stato chiesto di sedersi in silenzio per 5 minuti e "non pensare a qualcosa in particolare".
Sono state poste nove domande dicotomiche (sì / no) durante un'intervista strutturata, riguardo al tempo in cui ascoltavano musica estrema per cambiare un'emozione, ad esempio: "quando sei triste, ascolti della musica che migliora il tuo umore ? “, o per provare pienamente un'emozione ad es: " Quando sei arrabbiato, ascolti musica per sperimentare appieno quella rabbia? ".
Le emozioni erano: felici, tristi, arrabbiate e ansiose, con due elementi in più relativi a "innamorato" e "benessere". Fu messo in evidenza che i sintomi di depressione, ansia o stress erano nella gamma normale e non c'erano differenze tra i partecipanti nelle due condizioni.
Le risposte della maggioranza dei partecipanti concordava con le affermazioni che ascoltavano musica estrema per:
· provare pienamente rabbia (79%)
· per calmarsi quando si sentivano arrabbiati (69%).
Hanno anche ascoltato musica estrema per migliorare altri stati d'animo negativi come:
·la tristezza (74%)
· l’ansia (33%)
Una stragrande maggioranza ha affermato di ascoltare musica estrema per
· migliorare la propria felicità (87%)
· migliorare il proprio benessere (100%).
Lo scopo di questa ricerca era di testare due serie alternative di ipotesi riguardanti la relazione tra musica estrema e rabbia in condizioni sperimentali controllate.
La prima serie di ipotesi seguiva una linea di ragionamento della "musica estrema causa la rabbia” e la seconda serie di ipotesi seguiva una linea di ragionamento “la musica estrema aiuta a elaborare la rabbia".
I risultati generali sono stati di supporto alla seconda ipotesi, la maggioranza ha riferito di aver ascoltato musica estrema per una serie di effetti emotivi, il più pertinentemente per sperimentare pienamente la rabbia e calmarsi quando si sente arrabbiato.
Questi rapporti sono stati supportati dai risultati sperimentali. Coloro che ascoltavano musica quando erano arrabbiati non mostravano un aumento della frequenza cardiaca o ostilità soggettiva e irritabilità. Piuttosto, hanno mostrato una diminuzione dell'ostilità soggettiva e dell'irritabilità equivalente a coloro che sedevano in silenzio. La frequenza cardiaca si è stabilizzata ma non ha continuato a salire, suggerendo che la musica scelta dai partecipanti quando era arrabbiata corrispondeva alla loro eccitazione fisiologica e permetteva loro di sperimentarla pienamente.
Questo studio ha scoperto che i fan della musica estrema ascoltano la musica quando sono arrabbiati per abbinare la loro rabbia e per sentirsi più attivi e ispirati. Ascoltano anche musica per regolare la tristezza e migliorare le emozioni positive. I risultati confutano la nozione secondo cui la musica estrema causa rabbia, ma sono necessarie ulteriori ricerche per replicare queste scoperte in contesti sociali naturalistici e per indagare i potenziali contributi delle singole variabili ascoltatrici su questa relazione tra ascolto della musica estremo e elaborazione della rabbia.
O'Kelly J. (2015): "Extreme metal music and anger processing" Front. Hum. Neurosci., 21 May 2015 Sec. Cognitive Neuroscience Volume 9
Trauma Psicologico
Per trauma psicologico si intende qualsiasi evento che una persona recepisce come estremamente stressante. Può trattarsi di una minaccia all’integrità fisica, morte o minaccia di morte o eventi che hanno implicato la morte oppure aggressioni fisiche, propria o di altri, o all’identità psicologica, eventi ad esempio come disastri, guerre, malattie gravi ecc.
Questi eventi producono reazioni emotive e corporee importanti, che non sempre il cervello riesce ad elaborare.
L’impatto del trauma psicologico è soggettivo. A seconda delle caratteristiche di personalità, dell’ambiente circostante, della struttura emotiva e cognitiva di ogni persona un evento può essere più o meno traumatico.
La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore.
Eventi che potenzialmente posso scatenare un trauma psicologico non includono solo condizioni estreme e fuori del comune, ma molto spesso possono riguardare anche esperienze di trascuratezza o mancanza di rispetto e accudimento, che influiscono sul senso di valore dell’individuo, sulla sua sicurezza, sull’autostima e sul suo senso di efficacia personale.
Anche senza aver subito traumi psicologici con la “T” maiuscola, tutti noi abbiamo subito traumi con la “t” minuscola. Per alcuni può essere stato traumatico essere umiliati alle elementari da un maestro troppo duro, per altri essere mollati, improvvisamente, dal proprio partner; per molti può essere traumatica la perdita del lavoro, oppure un divorzio o la perdita di una persona cara, ma anche un giudizio ricevuto.
Il trauma psicologico è quindi molto frequente e costituisce uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi psicologici, in particolare di disturbi d’ansia , come il disturbo post-traumatico da stress, ma non solo.
I sintomi che si possono presentare in seguito ad un’esperienza traumatica non sono univoci. Essi variano a seconda della gravità del trauma psicologico, ma, soprattutto, dipendono dalla risposta soggettiva di chi lo ha subito.
La risposta all’esperienza traumatica è, prima di tutto, emotivo-corporea. Nel caso di un trauma psicologico irrisolto si crea nel cervello una stasi neurobiologica, che impedisce l’elaborazione delle emozioni e delle sensazioni corporee le quali, permanendo nel cervello oltre la conclusione dell’esperienza, sono pronte a riattivarsi in situazioni simili a quella traumatica.
Anche se la persona si trova in condizioni di sicurezza può accadere, infatti, che essa sperimenti le stesse emozioni e sensazioni sgradevoli che aveva provato nel momento in cui è avvenuto il trauma. Per esempio, chi ha avuto un incidente d’auto può continuare a sentirsi a disagio e teso in macchina, anche se consapevole che, da anni, guida senza problemi.
Questa iperattivazione emotiva e corporea può portare allo sviluppo di sintomatologie diverse.
Secondo la classificazione del DSM IV-TR, sono due i disturbi direttamente legati ad esperienze traumatiche irrisolte. Questi sono: il Disturbo Acuto da Stress e il disturbo post-traumatico da stress.
Trattasi di due disturbi d’ansia caratterizzati dai seguenti sintomi:
- paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore;
- rivivere costantemente l’evento traumatico con immagini, pensieri o percezioni ricorrenti e intrusive, sogni, sensazione di rivivere l’esperienza (illusioni, allucinazioni, flashback), disagio psicologico e reattività fisiologica intensa all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico;
- evitamento di pensieri, sensazioni, conversazioni, attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma, incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma;
- riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o estraneità verso gli altri, affettività ridotta, sentimenti di diminuzione delle prospettive future;
- aumento dell’attivazione nervosa, con difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, irritabilità o scoppi di collera, difficoltà a concentrarsi, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme.
Se tale sintomatologia si risolve entro 4 settimane parliamo di Disturbo Acuto da Stress, se invece perdura per oltre un mese si parla di Disturbo Post-Traumatico da Stress.
Nella pratica clinica si riscontra, però, che un trauma può dare origine a varie patologie e non solo alle due sopra citate.
Molti autori, oggi, indipendentemente dall’approccio teorico di appartenenza, sostengono che piccoli e grandi traumi psicologici, vissuti soprattutto in età infantile, hanno un impatto significativo sull’emergere dello stress psicologico e sullo sviluppo di vari disturbi mentali. Anche aspetti caratteriali, come la timidezza o la tendenza al senso di colpa, possono essere la conseguenza di traumi. In particolare, di traumi interpersonali, come rifiuti, umiliazioni, colpevolizzazioni, tanto più gravi quanto più ripetuti.
Un trauma psicologico irrisolto, infatti, costituisce un carico disfunzionale nel cervello di una persona che la rende più fragile rispetto all’impatto con altre possibili successive difficoltà della vita e ne diminuisce la resilienza. Per questo diciamo che un trauma irrisolto tende a “complessizzarsi”, dando vita a modalità di relazione disfunzionali con se stessi, con gli altri e con la realtà interna, che possono diventare la base di sintomatologie diverse.
Fonte: Dott. Francesco Bulli
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Droghe, impulsività e dipendenza: cannabis e cocaina a confronto
Droghe, impulsività e dipendenza: cannabis e cocaina a confronto
Secondo un recente studio condotto all'Università di Maastricht, sia la cannabis che la cocaina aumenterebbero la risposta impulsiva, ma in modo opposto.
La cannabis è la droga maggiormente utilizzata nell’Unione Europea, seguita subito dopo dalla cocaina. Sebbene la cannabis indebolisca le funzioni neurocognitive nei consumatori occasionali, questi indebolimenti appaiono meno prominenti nei consumatori abituali, a causa della possibile tolleranza sviluppata.
Messaggio pubblicitario È proprio su queste premesse che si basa uno studio abbastanza recente, pubblicato nel 2013, dei ricercatori di Psicologia e Neuropsicologia dell’università di Maastricht in Olanda. L’obiettivo era infatti quello di indagare se gli effetti indebolenti del THC, il principio attivo della cannabis, in consumatori abituali, si fossero presentati in un ampio spettro di funzioni neuropsicologiche oppure selettivamente in specifici aspetti.
Lo studio è stato condotto in Olanda su 61 consumatori regolari sani di cannabis e cocaina, i quali hanno partecipato all’esperimento assumendo sia una dose di cannabis che una di cocaina, sia un placebo, il tutto svoltosi in condizioni controllate di laboratorio. In seguito hanno poi completato un test che li portava a riflettere prima di fare un’azione. Infine i partecipanti allo studio sono stati osservati anche in situazioni nelle quali dovevano compiere un’azione e poi fermarsi.
In questo pacchetto di test le persone impulsive generalmente fanno più errori e hanno tempi più lenti per fermarsi nei compiti, come afferma infatti la responsabile della ricerca Janelle van Wel:
Se la tendenza di una persona ad essere impulsiva aumenta, tenderà a prendere decisioni affrettate, con l’aumento della probabilità di errore da parte sua.
I risultati di questo studio sono decisamente interessanti, sia la cannabis che la cocaina sembrano aumentare la risposta impulsiva, ma in maniera opposta. Sotto l’influenza della cannabis, i soggetti erano più lenti nel rispondere ai compiti e facevano più errori. La somministrazione di cocaina invece causava una risposta più veloce al compito, ma se il partecipante era messo nella condizione di dover controllare il suoi impulsi, faceva comunque più errori.
Come afferma Janelle van Wel, i risultati indicano che i consumatori abituali di cocaina e cannabis si mostrano più impulsivi sotto l’effetto delle due droghe rispetto a quando gli vengono somministrati dei placebo.
Ma qual è quindi il rischio? La stessa vanWell afferma che quest’aumento dell’impulsività dopo l’utilizzo di droga può aumentare la probabilità di sviluppare una dipendenza, con evidenti implicazioni e conseguenze per il soggetto utilizzatore.
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