Dimmi come ti pensi e ti dirò chi sei: quanto il nostro modo di definirci e essere definiti ci influenza
Dimmi Come Ti Pensi e Ti Dirò Chi Sei:
(Dott.ssa Valentina Pajola)
Chi ha intrapreso o sta affrontando un percorso di psicoterapia lo sa bene: le parole hanno un peso importante nella definizione di noi stessi, degli altri e della realtà in cui siamo immersi.
Il Circolo Vizioso delle Descrizioni Negative
Ecco quindi che se noi tendiamo a descrivere noi stessi con accezioni negative, tenderemo a incorporare e ad assumere quelle stesse caratteristiche. Questa tendenza porterà ad un circolo vizioso, in quanto saremo portati a notare quegli eventi e quelle situazioni che vanno a confermare la nostra teoria: ad esempio, se mi descrivo come una persona sfortunata, tenderò a notare, ricordare e riportare tutte quelle situazioni in cui ho avuto sfortuna, tralasciando tutte le situazioni che la disconfermano.
Lo stesso accade rispetto alle definizioni che diamo al mondo esterno. Ecco quindi che se ci convinciamo per esempio che il nostro superiore al lavoro ce l’ha con noi, saremo più portati a notare quei comportamenti che confermano questa assunzione, e ad agire di conseguenza: saremo magari più scontrosi nelle risposte, meno aperti nei suoi confronti, e questo comporterà un’inevitabile chiusura da parte dell’altro, confermando la nostra convinzione iniziale.
La Profezia Autoavverante
Il nostro modo di definire ed essere definiti diventa dunque una profezia che si auto-avvera: tale teoria, molto studiata, è stata trattata per la prima volta dal sociologo Robert K. Merton, e si riferisce proprio a quel fenomeno per cui quando qualcuno anticipa (“profetizza”) qualcosa, questa prospettiva ha buone probabilità di verificarsi, proprio perché i comportamenti messi in atto andranno a confermare e soddisfare questa credenza.
Effetto Pigmalione
Due studiosi, Robert Rosenthal e Lenore Jacobson, hanno provato a dare prova empirica di questo assunto in un esperimento pubblicato nel libro “Pigmalione in classe” (1968) che voleva verificare quanto l’aspettativa altrui, sia essa positiva o negativa, influenzi la realtà.
Nel famoso esperimento venne somministrato un test del Quoziente Intellettivo agli studenti di una scuola elementare, senza che i risultati venissero poi comunicati agli insegnanti.
Ciò che venne riferito fu solamente che alcuni studenti, che erano stati scelti in maniera del tutto casuale, avevano ottenuto un punteggio particolarmente buono che, se sostenuto e incoraggiato nella maniera adeguata, avrebbe potuto migliorare ulteriormente. Alla fine dello studio, al termine dell’anno scolastico, venne riproposto il test del Q.I. e i bambini scelti casualmente riportarono un netto miglioramento.
L'esperimento ha dunque portato in evidenza che le aspettative positive degli insegnanti hanno oggettivamente influenzato il rendimento degli studenti. Questo fenomeno, per cui aspettative positive comportano effetti positivi, è meglio conosciuto come “effetto Pigmalione”.
Effetto Golem
Lo stesso fenomeno può essere declinato al negativo, prendendo il nome di “Effetto Golem”, e si verifica quando le aspettative che abbiamo su noi stessi o sugli altri sono particolarmente basse.
Bibliografia:
- H. M. Collins e T. Pinch, "The Golem: What You Should Know About Science", Cambridge University Press, Cambridge, 1998
- R. K. Merton, "Self-Fulfilling Prophecy", The Antioch Review, Vol. 8, No. 2, pp. 193-210, 1948.
- R. K. Merton, "La profezia che si autoavvera", in Teoria e Struttura Sociale, II, Il Mulino, Bologna, 1971.
- R. Rosenthal e L. Jacobson, "Pigmalione in Classe: Aspettative dell’insegnante e sviluppo intellettuale degli allievi", Franco Angeli, Milano, 1992.
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Maschere, Bluff e altri intoppi
In questo periodo torna prepotentemente all’attenzione il concetto di maschera, ovvero di bluff, dall’inglese ingannare.
Si tratta di un camuffamento quotidiano che consiste nel nascondere, travestire le proprie emozioni o il proprio stato per farsi attribuire meriti non veri e riscuotere apprezzamento sociale. “Mi sento un bluff, prima o poi gli altri si accorgeranno che non valgo nulla”, “in attesa della promozione avevo ansia perchè pensavo di non farcela, poi, una volta ottenuta, sentivo un’ansia ancora maggiore... ora sarebbe stato chiaro a tutti che non ero all’altezza”, “ho sempre corrisposto alle aspettative degli altri, dei miei genitori, degli insegnanti, degli amici, è un modo per nascondermi, perché non sappiano chi sono veramente ma un giorno lo scopriranno e saranno delusi”. Questa percezione di un sè inadeguato, di cui si prova vergogna e che prima o poi si svelerà a tutti, viene sentita come necessaria per mantenere l’accettabilità e si accompagna allo sforzo costante di mostrare un’immagine all’altezza delle aspettative. Le due condizioni, il vero sé inaccettabile e quello apprezzabile esibito, sono strettamente correlate, l’una rende necessaria l’altra e la rinforza. La vergogna, profonda e radicata, rende impossibile acquisire fiducia e confidenza con sé stessi.
È all’attenzione delle cronache di questi giorni l’emergenza suicidi tra gli studenti, ragazzi che sentono di poter piacere solo se aderiscono a degli standard accademici predefiniti. Non riuscendo a soddisfarli creano un mondo di bugie attorno a loro, finché il peso di queste non è più sopportabile e anziché sottoporsi alla vergogna di mostrarsi per quello che sono, preferiscono togliersi la vita. Esiste una particolare esperienza sperimentata da persone che ottengono risultati significativi in ambito lavorativo, descritta fin dagli anni ‘70 come sindrome dell’impostore.
Si tratta di una percezione di inadeguatezza radicata in una scarsa autostima, che nessun risultato o successo può scalfire. La conseguenza consiste nell’effetto paradossale su questi soggetti dell’ottenimento dei riconoscimenti: invece che provocare gratificazione e maggiore fiducia, si produce la sensazione inquietante e quasi certa di un imminente futuro nel quale verranno smascherati e in cui si rivelerà al mondo la loro inadeguatezza. Queste osservazioni, inizialmente descritte in donne in carriera, hanno avuto negli ultimi tempi una forte diffusione, che ha visto nascere gruppi di auto aiuto e la pubblicazione di numerosi testi. È ipotizzabile che il fenomeno dell’impostore rappresenti la punta di un iceberg, collegato però ad una serie di esperienze in realtà molto diffuse nella quotidianità.
Se la maschera ha una funzione protettiva necessaria a difendere un sè ancora fragile e costruito su aspettative irrealistiche, prima di qualsiasi intervento di apertura è necessario aiutare la persona a sviluppare accettazione e fiducia, che possa portarla a valorizzare le proprie capacità e a tollerare la frustrazione di quelle caratteristiche che sente meno proponibili. In quest’ottica ognuno sarebbe più libero di esprimersi in modo autentico e in definitiva, umano.
Dot.sa Alessandra Franceschini
La gentilezza: una risorsa per migliorare la soddisfazione per la propria vita
Autore: Alberto Chiesa
Molto spesso le tradizioni contemplative hanno suggerito che per vivere una vita più piena e soddisfacente sia importante tanto una buona consapevolezza di sé quanto una coltivazione diretta di alcune specifiche qualità mentali e disposizioni d’animo salutari.
Tra le diverse tradizioni, una di quelle che ha fornito indicazioni più precise è stata certamente la tradizione buddista. Secondo questa tradizione, coltivare la consapevolezza di sé, via maestra per vivere una vita più integra e soddisfacente, può essere aiutata e sostenuta dal praticare atteggiamenti salutari, tra cui l’equanimità, la gioia compartecipe, la compassione e, appunto, la gentilezza, sia quella diretta sia verso sé stessi che quella diretta verso gli altri.
Secondo tale tradizione, infatti, queste qualità non sono innate e stabili, ma vanno coltivate e praticate intenzionalmente. È dalla pratica e la cura di queste attitudini mentali che possono nascere numerosi benefici, sia per gli atri che per noi stessi.
Cosa possiamo fare per fra crescere in noi la gentilezza?
Tra i modi più efficaci volti a coltivare intenzionalmente la gentilezza e tutti gli atteggiamenti mentali legati alla consapevolezza di sé, la pratica di alcune specifiche meditazioni basate sulla visualizzazione è da sempre stata indicata come uno dei mezzi più efficaci e potenzialmente praticabili da chiunque.
Un esempio di queste pratiche è la “Meditazioni di Metta”:
Mettiti in posizione seduta. Chiudi gli occhi. Quando hai trovato la tua concentrazione e sei connesso con il tuo corpo, cerca di rievocare una persona che è stata gentile con te. Immagina che diriga verso di te quella gentilezza con un abbraccio oppure che ti rivolga delle parole dolci, oppure che ti aiuti in qualche modo. Calati il più possibile nella scena cercando di sentire le emozioni e le sensazioni che provi in questa scena. Resta in ascolto di quelle sensazioni calde. Osserva come cambia il tuo stato interiore.
Se lo desideri puoi accompagnare questa esperienza con le parole “che io possa stare bene. Che io possa trovare la pace. Che io possa liberarmi dalle sofferenze non più necessarie”
Più recentemente si sono iniziati ad indagare da un punto di vista scientifico i possibili effetti positivi della coltivazione intenzionale della gentilezza. Una revisione della letteratura scientifica sul tema coordinata condotta da Xiaodan Gu e collaboratori dell’Università Nti di Pechino ha cercato di sintetizzare i risultati prodotti sino ad ora in un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Applied Psychology: Health and Well Being. Coerentemente con le ipotesi, gli autori hanno osservato che praticare quotidianamente meditazioni volte ad evocare uno stato di gentilezza può portare a significativi miglioramenti della soddisfazione della propria vita. Inoltre, gli autori hanno osservato che tali miglioramenti sarebbero mediati da un aumento dell’autocompassione (cioè della capacità di guadare ai propri “difetti” in modo benevolo come ad aspetti di possibile miglioramento di sé) e della tendenza a sperimentare emozioni positive come la felicità e la gioia.
Gli autori hanno quindi concluso che coltivare intenzionalmente la gentilezza, oltre che essere un atteggiamento positivo da un punto di vista relazionale, può portare a un incremento della felicità innanzitutto da parte di chi la pratica.
Reference:
Xiaodan Gu, Wenting Luo, Zhao Xinran, Yanyan Chen: “The effects of loving‐kindness and compassion meditation on life satisfaction: A systematic review and meta‐analysis” May 2022. Applied Psychology Health and Well-Being - Beijing Normal University
L’importanza della Gratitudine
“La gratitudine è la memoria del cuore”
(Lao Tse)
La parola gratitudine deriva dal latino gratus “piacevole, grato”. Viene definita come un sentimento di affetto e riconoscenza verso un’altra persona per qualcosa che ha fatto, ma implica anche altro. A tal proposito, lo psicologo Emerson la definisce come l’apprezzamento di ciò che è prezioso e significativo per sé stessi identificandone due componenti fondamentali: la presenza di cose buone nel mondo e nella propria vita; il riconoscimento che le fonti di questi aspetti positivi siano anche al di fuori di sé stessi.
La gratitudine è un’emozione affiliativa, che apre il cuore e permette di orientare la mente verso ciò che nella vita è positivo e buono, costituendo quindi un buon antidoto alla tendenza naturale della nostra mente a indugiare su tutto ciò che è assente o imperfetto. È anche un sentimento che nasce dalla consapevolezza dei doni che la vita ci mette continuamente a disposizione, riconoscendo il buono dei nostri scambi col mondo e quanto nutrimento riceviamo. Tramite la gratitudine entriamo in connessione più profonda con gli altri, la natura, il mondo. Senza gratitudine tutto quello che accade intorno passerebbe quasi inosservato. Provare l’emozione della gratitudine coinvolge una serie di fattori importanti per il nostro sviluppo psicologico.
Il National Institutes of Health indica l’importanza della gratitudine per la salute, perché produce cambiamenti nel flusso sanguigno all’interno del cervello e maggiori livelli di attività nell’ipotalamo e flussi più elevati di dopamina. La gratitudine aumenta il livello di vitalità, incrementa le emozioni positive e costituisce una protezione da stress e umore negativo; migliora anche le abilità di affrontare i problemi in situazioni di stress, di difficoltà e costituisce un fattore protettivo per la salute ed il benessere.
Inoltre, la ricerca scientifica e le neuroscienze hanno evidenziato come la gratitudine influisca sul nostro funzionamento psicofisico e sul nostro benessere tanto da produrre felicità, generare più soddisfazione, sviluppare l’ottimismo e migliorare le relazioni sociali. Inoltre, riduce il senso di rimpianto derivante dal confronto tra la percezione di come sono andate le cose nella vita e come invece sarebbero dovute andare. Riduce le emozioni tossiche, che derivano dal confronto sociale, che comportano risentimento e invidia. Migliora le relazioni sociali, favorendo la costruzione di nuovi legami, così come migliora le relazioni in essere.
La gratitudine è un seme intrinseco alla nostra natura, per questo può essere adeguatamente stimolata ed accresciuta come un seme nel nostro giardino.
Perché è utile dedicare del tempo a coltivare la gratitudine? Come possiamo innaffiare questo seme?
Quando siamo grati sperimentiamo tenerezza, gioia e quella leggerezza che ci accompagna quando sentiamo che anche in mezzo a difficoltà o fatiche, può esserci un sorriso, un gesto gentile, una parola, un regalo della natura. Possiamo cominciare a innaffiare il seme della gratitudine decidendo di istituire “la giornata delle gratitudine”, in cui ci alleniamo a dire cento volte grazie! ‘Grazie per’ a tutto ciò che incontriamo, alle cose semplici della vita, al fatto che siamo vivi, che abbiamo una casa, un amico, le mani, che camminiamo, che abbiamo il cibo. Possiamo iniziare a coltivare una riflessione serale, prima di andare a dormire, rivolgere la nostra attenzione agli eventi principali della nostra giornata e porci la domanda ‘ per cosa mi sento particolarmente grato?’… è una pratica che innaffia il seme dell’apprezzamento, del riconoscimento, della gratitudine ed è un antidoto alla tendenza della nostra mente a pensare per disastri o mancanze.
Giornata Mondiale della Salute Mentale - 10 ottobre 2022 – Rendere la salute mentale e il benessere per tutti una priorità globale
Il 10 ottobre si celebra La Giornata Mondiale della Salute Mentale (World Mental Health Day) che è stata proposta nel 1992 dalla Federazione Mondiale per la Salute Mentale (WFMH) con l’obiettivo di promuovere una maggiore cultura della Salute Mentale e ridurre lo stigma sociale verso chi soffre.
Ogni anno la WFMH propone un tema diverso sul quale riflettere. Nel 2021 “Salute Mentale in un mondo ineguale” (Mental Health in an Unequal World) perché persiste una disparità di trattamento e di qualità dell’assistenza fornita tra chi soffre di malattie mentali e chi di altre patologie. Per il 10 ottobre 2022 l’invito rivolto a professionisti e istituzioni è quello di “rendere la salute mentale e il benessere per tutti una priorità globale” (make mental health and well- being for all a global priority).
Invito che nasce dall’urgenza di tenere alta l’attenzione sulle politiche di salute mentale, oggi diventato estremamente attuale a fronte di un aumento del bisogno e della domanda di assistenza. Infatti, la pandemia seguita dalla crisi economica, dalla guerra in Ucraina e dai sempre maggiori cambiamenti climatici, hanno chiesto a tutti noi di far fonte a un crescente senso di precarietà e incertezza per il nostro futuro che ha comportato un aumento significativo dei livelli di stress individuale.
Tale situazione ha inevitabilmente comportato un’ importante ricaduta anche sul piano della Salute Mentale comportando un aumento delle richieste e di conseguenza la necessità da parte delle istituzioni di ripensare i meccanismi organizzativi e i finanziamenti destinati a questo settore. La World Psychiatric Associacion (WPA) riporta chiaramente che terminata l’emergenza pandemica è emerso come nessuna Nazione mondiale si sia trovata pronta ad affrontare tale aumento di richiesta di aiuto.
In questa giornata siamo quindi tutti chiamati a interrogarci su come, anche singolarmente, possiamo contribuire per aiutare le persone bisognose d’aiuto e per sensibilizzare sempre più l’opinione pubblica sul bisogno di un aiuto più consistente.
Refereces:
https://insiemeperlasalutementale.it/la-gm-della-salute-mentale/
Il gioco d'Azzardo Patologico (GAP)
Il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) è riconosciuto ufficialmente dalla comunità scientifica come patologia dal 1980. Oggi si parla di disturbo da gioco d’azzardo (gambling) ed è definito come dipendenza comportamentale in quanto vengono attivati sistemi di ricompensa del cervello con effetti simili a quello delle droghe. La dipendenza è data, in questi casi dal comportamento invece che dalla sostanza.
Affinchè il gioco d’azzardo diventi da ricreativo a problematico è necessario considerare alcuni sintomi specifici: l’intensificazione degli accessi al gioco; un aumento delle spese; la comparsa di pensieri ricorrenti di gioco spesso accompagnati da distorsioni cognitive e fantasie di super vincite; aumento della ricerca di ambienti di gioco.
Il passaggio ad una dimensione patologica richiede: la comparsa di meccanismi difensivi di negazione con aumento della menzogna; depauperimento delle risorse economiche con indebitamenti; modificazioni delle abitudini di vita; cambiamenti dell’umore, aumento dell’aggressività; cambiamenti delle rete sociale e dei luoghi di frequentazione abituali. Da un punto di vista socio ambientale è frequente la presenza di problemi sul lavoro come l’assenteismo, il calo delle prestazioni fino alla perdita del lavoro stesso. Sono riscontrabili inoltre problemi in famiglia con conflitti con coniuge e figli e difficoltà economiche importanti.
Nei casi più gravi sono presenti anche tentativi di suicidio o suicidi portati a termine spesso con, associate, sintomatologie depressive, indebitamento consistente e difficoltà relazionali. L’incontrollabilità del comportamento di gioco insieme ai problemi finanziari possono far avvicinare la persona alle organizzazioni criminali del gioco illegale e soprattutto all’usura.
Lo sviluppo di questa dipendenza presuppone che ci sia una vulnerabilità preesistente al contatto con il gioco d’azzardo e, spesso ma non sempre, anche con le sostanze stupefacenti. Se questo contatto avviene in carenza di fattori protettivi
( scarso attaccamento parentale, deficit del controllo famigliare, bassa presenza di sistemi sociali protettivi) esiste il rischio che si instauri una vera e propria forma di addiction (dipendenza)
Gli elementi di vulnerabilità sono caratterizzati da una combinazione di fattori: fattori individuali intesi come alterazioni neurobiologiche che coinvolgono il sistema centrale della gratificazione; fattori psicosociali: il contesto favorente dato da relazioni famigliari conflittuali con scarsità di attenzione e prevenzione che tollera e promuove attivamente il gioco; fattori ambientali in relazione al facile accesso al gioco e l’effetto psicologico gratificante ed inibente su ansia, depressione e noia.
Il decorso comportamentale del GAP può essere rappresentato attraverso 7 fasi
( Rosenthal 1992).
La prima, di solito, è rappresentata dalla vincita, da un senso di prestigio e potere spesso accompagnata da onnipotenza.
La seconda fase è quella della perdita inaspettata con conseguente rincorsa della vincita desiderata ma seguita da continue perdite, con un andamento a spirale.
La terza fase viene descritta come la fase della disperazione con eventuale coinvolgimento in attività illegali, fantasie di fuga e spesso pensieri suicidari.
La quarta è la fase della rinuncia e della richiesta d’aiuto con incremento dei pensieri suicidari.
La quinta fase è quella del trattamento intensivo con tutte le difficoltà inerenti all’aderenza, alle prescrizioni e all’insorgere del craving ( inteso come desiderio irresistibile che comporta perdita di controllo) durante il trattamento.
La sesta fase è la fase della recidiva che può durare anche a lungo e del successivo ritorno alla cure.
La settima fase può avere due alternative: può essere quello del comportamento controllato con astinenza dal gioco o quello della continuazione del gioco patologico con aumento dei problemi finanziari.
Non solo le persone con GAP ma anche i famigliari possono ricorrere all’aiuto di professionisti sia nel pubblico (Ser.D territoriali) sia nel privato.
Dott.ssa Katia Guadagnini
Cos'è il perfezionismo?
Cos’è il perfezionismo?
Il perfezionismo è un costrutto multidimensionale e si riferisce al desiderio di raggiungere i più alti standard di performance unito alla tendenza a essere eccessivamente autocritici Frost RO et al., 1990; Hewitt PL, Flett GL, 1991).
Quando parliamo di perfezionismo dobbiamo distinguere tra il desiderio sano e adattivo di migliorarsi e mantenere standard elevati di rendimento, da un perfezionismo disfunzionale che ci porta invece a esperire frequentemente vissuti di ansia, tristezza, senso di colpa e rabbia e che può associarsi a diversi disturbi psicologici. In questo caso è presente un’esagerata preoccupazione di commettere errori, il perseguimento di standard personali irragionevoli e troppo elevati con conseguenti vissuti di inadeguatezza, un rigido autocriticismo e un’intensa percezione degli altri come critici ed esigenti.
Come si può capire se si ha un problema di perfezionismo patologico? Prova a rispondere a queste domande:
- Ti capita di essere così preoccupato di riuscire bene in ciò che fai da compromettere il rendimento effettivo del tuo lavoro?
- Ti capita di non rispettare le scadenze perché cerchi di eseguire anche la minima incombenza alla perfezione?
- Il tuo perfezionismo incide negativamente nel rapporto con colleghi o nei rapporti interpersonali in generale?
- Ti capita che qualcuno dei tuoi amici o familiari si lamenti del fatto che devi fare tutto alla perfezione?
- Ti capita di far aspettare altre persone a causa del tuo perfezionismo?
- Ci sono persone vicino a te che credono sia impossibile essere all’altezza delle tue aspettative?
- Il tuo perfezionismo ti impedisce di apprezzare il tempo libero?
- Quando ti dedichi a un hobby o pratichi uno sport ti sembra di “lavorare”?
- Senti l’esigenza di fare tutto alla perfezione anche quando cerchi di rilassarti o divertirti?
Se la risposta alla maggioranza delle domande è si, potrebbe essere utile parlarne con un professionista.
I pensieri del perfezionismo patologico
Avere un perfezionismo rigido porta a pensare in modo dicotomico in una modalità “tutto o niente” interpretando qualsiasi cosa come assolutamente giusta o assolutamente sbagliata senza riuscire a vedere le diverse sfumature possibili a seconda delle situazioni. L’ attenzione si concentra solo sugli aspetti negativi di una situazione portando a sopravvalutarne l’importanza con la convinzione di essere oggetto di giudizio critico da parte di altri. Il perfezionismo porta a fare pensieri catastrofici associati all’idea di non essere in grado di affrontare le conseguenze negative di un avvenimento. Si tende a pensare che rinunciare a standard troppo elevati sia inaccettabile e che sia possibile tenere tutto sotto controllo sentendosi eccessivamente responsabili nel dover predire e controllare qualsiasi imprevisto. Questo porta a rimuginare continuamente e a farsi guidare da affermazioni prescrittive verso se stessi e verso gli altri “dovrei/dovrebbe” portando a sentirsi facilmente ansiosi o arrabbiati.
Le conseguenze comportamentali del perfezionismo
È possibile suddividere i comportamenti perfezionistici in due tipologie principali:
- Comportamenti volti a soddisfare standard eccessivamente elevati: controllare ripetutamente la correttezza delle proprie azioni, ripetere più volte le stesse azioni per sentirsi più sicuri, passare molto tempo ad occuparsi di dettagli divenendo molto lenti nello svolgere lavori, non riuscire a prendere decisioni per paura di commettere un errore, cercare continue rassicurazioni, correggere spesso gli altri, non riuscire a delegare per poca fiducia nelle capacità altrui sovraccaricandosi di impegni.
- Comportamenti volti a evitare tutte le situazioni che possono attivare tali standard: rimandare/evitare impegni e l’inizio di attività o abbandonare prematuramente un obbiettivo perché non ci si sente abbastanza pronti o in grado di raggiungere la perfezione.
Tutti questi comportamenti se eccessivi ci possono portare ad avere risultati opposti da quelli sperati perdendo completamente il controllo sulla propria esistenza.
Per riuscire a gestire meglio questo problema può essere utile iniziare un percorso di psicoterapia volto a comprendere e lavorare sui pensieri rigidi cercando così di flessibilizzare il modo di pensare con l’obbiettivo di rendere il desiderio di migliorarsi e mantenere standard elevati una risorsa adattiva e non un problema che ostacola la vita sociale, interpersonale e lavorativa.
Dott.ssa Luana Lazzerini
Lo stress e la sindrome del colon irritabile (IBS)
Lo stress è un elemento naturale ed inevitabile nella vita che richiede un adattamento da parte dell’individuo. Anche i nostri stessi tentativi di rispondere ad una pressione o a un cambiamento possono essere fonte di stress in quanto non adeguati.
Secondo Seyle la malattia risulta essere un fallito tentativo di adattamento a condizioni stressanti e sono definiti “stressors” tutti gli stimoli interni o esterni (fisici, biologici o psicosociali) che ci causano stress.
Il cervello svolge un ruolo cruciale nel regolare il funzionamento dei processi che contribuiscono al nostro essere vivi.
Quando lo stress giunge al punto in cui la mente individua o immagina una minaccia per il proprio benessere fisico, per il senso di identità o per la propria posizione sociale, essa reagisce in un modo particolare e mette automaticamente in moto il sistema di allarme (l’amigdala) che ci spinge verso la reazione di attacco o fuga.
Certamente la reazione di attacco o fuga accresce la possibilità di sopravvivenza di un animale in una situazione pericolo. Questo non è un riflesso automatico ma una capacità intelligente ed evoluta per gestire situazioni complesse in cui è in gioco la sopravvivenza stessa. Le cose si mettono male quando non siamo in grado di servircene costruttivamente e agisce in noi in modo incontrollato in situazioni che in realtà non costituiscono un pericolo per la nostra vita.
Noi non incontriamo un leone mentre andiamo al lavoro, eppure la nostra mente percepisce gli eventi in termini di minaccia mortale per il nostro sistema e l'emozione esperita sarà tanto più intensa quanto più sarà grande la minaccia percepita. La reazione somatica al presunto pericolo è una reazione di allarme sostenuta da un aumento del tono adrenergico che mette l'organismo nelle condizioni migliori per combattere o fuggire. In tal modo i nostri canali di allarme restano cronicamente attivati. Questo ci espone a problematiche sia fisiche che psicologiche: aumentano le malattie infiammatorie, si accelera l’invecchiamento cellulare, rischio di diabete e alterazioni dell’appetito. Ognuno di noi sembra avere una parte del corpo preferenziale in cui si accumulano le tensioni: la mandibola, le spalle, il ritmo cardiaco accelerato, le mani sempre sudate, l’intestino. Questa reazione di stress incontrollata, quando diventa cronica può avere gravi conseguenze per la nostra salute fisica e psicologica.
La sindrome dell'intestino irritabile (IBS) è il disturbo gastrointestinale funzionale più diffuso che colpisce la qualità della vita di oltre il 15% della popolazione.
L'IBS è una condizione cronica e i sintomi includono: crampi, dolore addominale, gonfiore, gas e diarrea o costipazione, o entrambi.
Nel 50% dei casi non esiste una causa organica chiaramente dimostrabile. I medici visitano il paziente dalla testa ai piedi e non trovano niente di anormale.
Circa l’80% dei pazienti con IBS soffrono di disturbi psicologici, come depressione, panico, agorafobia e semplici fobie; l’altro 20%, che non soddisfa i criteri per un disturbo psicologico, lamenta paure e preoccupazioni che sono collegate direttamente ai loro sintomi e che possono contribuire notevolmente all’abbassamento del loro benessere, compromettendo la vita sociale, lavorativa ed affettiva.
Quando una persona sperimenta un sintomo come il dolore, può avere pensieri negativi sul dolore che causano paura e/o frustrazione, queste emozioni negative mettono il corpo in una risposta di "lotta o fuga", con un aumento degli ormoni dello stress, della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca. I cambiamenti nell'intestino fanno parte di questa reazione al pericolo che il corpo pensa di affrontare e possono includere diarrea, costipazione, dolore o disagio.
Il collegamento tra le malattie dell'apparato digerente e le malattie psicologiche indica la particolare relazione esistente tra il cervello e l'intestino. Il percorso tra il cervello e l'intestino è chiamato asse cervello-intestino, e si basa su messaggeri chimici per comunicare informazioni avanti e indietro sulla nostra digestione, appetito, pensieri ed emozioni. Tra i messaggeri chimici abbiamo la Serotonina nota per il suo impatto su umore, sonno, appetito e desiderio sessuale. Quindi il nostro stato emotivo è strettamente legato al funzionamento del nostro tratto gastrointestinale o meglio il funzionamento del nostro tratto gastrointestinale influenza le nostre emozioni e le nostre emozioni influenzano il funzionamento del nostro tratto gastrointestinale.
Tra le tecniche di psicoterapia nei pazienti con IBS, la CBT (Terapia cognitivo-comportamentale) è molto efficace nel diminuire l'ansia, l'agitazione e la depressione, nell'utilizzare le abilità di coping ed alleviare il dolore e altri sintomi.
La CBT si basa sulla convinzione che i nostri pensieri (cognizioni), emozioni e comportamenti sono tutti collegati: i pensieri disfunzionali “non utili” influiscono negativamente su come ci sentiamo e queste emozioni negative possono influire su come ci comportiamo. Prendendo consapevolezza e modificando i nostri pensieri e comportamenti per renderli più funzionali, possiamo migliorare il nostro stato emotivo.
Pertanto se impariamo a riconoscere la tendenza a entrare direttamente in una reazione di stress e impariamo a modularla con una risposta più consapevole, ossia se impariamo a riconoscere che la nostra valutazione istantanea di una minaccia è spesso erronea e genera inutile sofferenza e paura, possiamo migliorare il nostro benessere.
Dottoressa Enza Cannavale
- Irritable bowel syndrome treatment: cognitive behavioral therapy versus medical treatment Majid Mahvi-Shirazi, Ali Fathi-Ashtiani, Sayed-Kazem Rasoolzade- Tabatabaei, and Mohsen Amini, 2012
- Irritable bowel syndrome_ Mayo Clinic, 2021
- B. Toner, Z. Segal, S. Emmott, D. Myran “Cognitive-Behavioral Treatment of Irritable Bowel Syndrome” Guildfor Press 2000
- Cognitive Behavioral Therapy for IBS and Other FGIDs by Alyse Bendell, MS; Northwestern University Feinberg School of Medicine, and Laurie Keefer, PhD, Icahn School of Medicine, Mount Sinai, New York, NY, Adapted by Abigale Miller, 2021
Salute mentale perinatale
L’arrivo di un figlio, soprattutto quando corrisponde alla realizzazione di un desiderio, è solitamente associato a una attesa di felicità: un “lieto evento”, per l’appunto. Allo stesso tempo non bisogna però sottovalutare che per i neogenitori rappresenta l’inizio di una fase di vita del tutto nuova, ricca di intense esperienze – fisiche, emotive, relazionali – perlopiù inedite e non sempre facili da gestire.
Diventare genitori è un passaggio evolutivo, che per quanto “naturale”, porta con sé importanti cambiamenti, e che quindi richiede altrettanto importanti adattamenti: sia su un piano concreto – possiamo pensare al cambiamento del corpo della donna in gravidanza, alla modifica dei ritmi sonno-veglia, dello stile di vita incentrato sull’accudimento del bambino; sia dal punto di vista psicologico e sociale, con il nuovo ruolo genitoriale che richiede una ridefinizione della propria identità e anche un riposizionamento relazionale.
In questo senso il periodo perinatale – inteso come arco di tempo che va dalla gravidanza a un anno dopo il parto – si presenta come un periodo di vita complesso, con molteplici criticità, e va considerato come un momento di potenziale vulnerabilità per madri e padri. Da un punto di vista psicologico, tutte queste nuove sollecitazioni possono infatti minare l’equilibrio della persona e della coppia, che può trovarsi a vivere momenti di difficoltà, di disagio emotivo: una sofferenza psicologica che nella maggior parte dei casi è transitoria, soprattutto se riconosciuta e gestita, ma che a volte può portare anche allo sviluppo, o al riemergere, di un vero e proprio disturbo mentale.
Sono molteplici le tipologie di psicopatologia che possono presentarsi in epoca perinatale, sia nella donna che nell’uomo: disturbi del tono dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare, da uso di sostanze, fino a diverse forme di psicosi. L’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere stima che nel nostro Paese siano oltre 90.000 le donne che soffrono di disturbi depressivi e di ansia nel periodo perinatale, e che ne siano colpite circa il 16% delle donne nel periodo della maternità: stime ritenute molto approssimative, poiché i sintomi sono spesso sottovalutati sia dalle pazienti sia dai clinici. Nel periodo perinatale chiedere aiuto risulta infatti più difficile, per la difficoltà di riconoscere di avere un problema – per non essere consapevoli del significato dei propri sintomi, o per non riuscire a comunicare come ci si sente –, ma anche per lo stigma già comunemente associato al disagio mentale, che in questa fase di vita risulta ancora più pesante, accompagnandosi a vissuti di inadeguatezza e di colpa.
Le conseguenze di un malessere non identificato e non adeguatamente trattato sono però significative: le evidenze scientifiche hanno dimostrato l’importanza dello stato emotivo della madre durante la gravidanza per il neurosviluppo del feto e quindi del bambino, scoprendo che a incidere non sono solo lo stress estremo o un disturbo mentale diagnosticato, ma anche fattori di disagio come sintomi di ansia e depressione prenatale, circostanze di vita stressanti e problemi quotidiani. Non è chiaro se tipi di stress diversi portino come risultato effetti diversi. Ciò che è assodato è che i disturbi mentali nel periodo perinatale abbiano un significativo impatto sulla vita della donna, sul bambino, sulla relazione mamma-bambino e su tutta la famiglia; con inoltre ricadute considerevoli, anche solo in termini di costi sociali ed economici, sull’intera comunità.
Negli ultimi anni la ricerca si è dedicata anche allo studio dell’impatto del benessere psicologico paterno, scoprendo che la depressione nei padri è più frequente di quanto si pensasse e che anche in questo caso essa è a sua volta associata a effetti negativi sullo sviluppo del bambino.
Il periodo perinatale risulta quindi essere una fase cruciale del ciclo di vita, con importanti ripercussioni anche sul lungo termine. Anche per questo merita una specifica attenzione: la psicologia perinatale è una branca della psicologia che si pone proprio l’obiettivo di studiare, promuovere e tutelare il benessere psicologico in questa delicata fase esistenziale, con la consapevolezza dell’importanza di offrire supporto e interventi efficaci in tutte quelle situazioni che possono creare stress e sofferenza emotiva prima e dopo il parto, poiché il riconoscimento tempestivo e la presa in carico di un disagio emotivo o di un disturbo psicopatologico, nella madre o nel padre, è di fondamentale importanza per la tutela della salute dei bambini, che saranno gli adulti di domani.
Dott.ssa Vittoria Castagner
Bibliografia:
Anniverno R., Bramante A., Petrilli G., Mencacci C. (a cura di) Prevenzione, diagnosi e trattamento della psicopatologia perinatale. Linee guida per professionisti della salute. O.N.D.A. 2014.
Howard L.M., Piot P., Stein A. No health without perinatal mental health. Lancet, Vol. 384, No. 9956, 15.11.2014, p. 1723-1724.
Quatraro R.M. e Grussu P. (a cura di). Psicologia clinica perinatale. Dalla teoria alla pratica. Erickson, Trento, 2018.
Altro...
Quando la tristezza diventa depressione
È esperienza comune utilizzare e sentire frasi che attingono al mondo della psicologia e che sono diventate parte integrante del nostro vocabolario: “ho l’ansia”, “mi vengono le paranoie”, “mi sento depresso”. Tuttavia tale terminologia è talvolta usata in maniera inappropriata rispetto al reale significato delle parole scelte.
Ricordiamo che il nostro modo di narrarci influenza la nostra percezione ed esperienza di noi stessi, è dunque importante notare come ci raccontiamo.
Ad esempio può capitare che la tristezza venga scambiata per depressione.
Ma quando un’emozione di tristezza sfocia in uno stato depressivo?
La tristezza è un’emozione che tutti nella vita sperimentiamo, e sebbene considerata spesso spiacevole, svolge per noi funzioni importanti sia a livello relazionale che personale: in una situazione di perdita (non pensiamo solo al lutto, ma consideriamo il termine in senso lato), ci permette di fermarci per accogliere la situazione, analizzarla, capire che qualcosa non va ed elaborare il tutto. Tale elaborazione spesso porta a nuovi punti di vista e sollecita in noi cambiamenti. Ecco quindi che si rivela importante accogliere ed ascoltare questa emozione, starci in contatto, per quanto a volte difficile e doloroso possa risultare (lo stesso vale per tutte gli altri stati emotivi che viviamo quotidianamente).
A livello relazionale, i correlati corporei della tristezza comunicano all’altro la nostra difficoltà e rendono possibile una risposta di aiuto e vicinanza. Il nostro sistema di attaccamento lancia dunque un segnale di aiuto.
La tristezza è quindi un’emozione funzionale, che ha motivo di esistere e che ci può anche essere utile nel farci trovare uno slancio al cambiamento.
Quando possiamo parlare di Disturbo Depressivo Maggiore, più comunemente conosciuto come depressione? Il DSM 5 (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) ci viene in aiuto nel delineare i criteri che caratterizzano questo stato di sofferenza. Considerando che esistono molteplici sfumature di sofferenza e che le forme depressive sono varie, le linee guida individuano nel Disturbo Depressivo Maggiore alcune caratteristiche quali un umore depresso per la maggior parte del giorno; una diminuzione del piacere o interesse in attività che generalmente consideriamo piacevoli; possono essere presenti disturbi del sonno e disturbi dell’appetito, con conseguenti aumento o perdita di peso. Le altre persone potrebbero farci notare che siamo più agitati o al contrario più lenti del solito. Potremmo notare difficoltà a concentrarci e sentimenti di colpa o autosvalutazione. Potrebbero presentarsi inoltre pensieri di morte.
È bene sottolineare che quando parliamo di salute mentale e di benessere parliamo di un “continuum”, nel quale possiamo sentirci più o meno bene, non pensiamo dunque a uno stato in benessere o malessere assoluti, come se fosse presente un interruttore che ci fa passare da una modalità on a una modalità off. Possono presentarsi dunque momenti di vita in cui la tristezza è particolarmente intensa e pervasiva, senza parlare necessariamente di depressione, e che necessitano comunque della giusta cura e attenzione.
Aldilà dei criteri quindi, qualora ci trovassimo in uno stato di difficoltà e di malessere, non esitiamo a rivolgerci a professionisti che possano prendersi cura di noi e ci aiutino ad affrontare il momento doloroso.
Dott.ssa Valentina Pajola
Intenzionalità di guarigione. La mente e la cura nel mondo dei quanti
Recensione del libro:
‘INTENZIONALITA’ DI GUARIGIONE. LA MENTE E LA CURA NEL MONDO DEI QUANTI’ Autore Gioacchino M. Pagliaro
Edizioni AMRITA. Anno 2021
La vita è la ricerca della sintonia con la saggezza dell’universo. In questa frase di apertura al libro, l’autore sintetizza tutto ciò che spiegherà, con prove scientifiche, promuovendo l’introduzione dei principi quantistici, nell’azione di cura. L’attuale visione della vita, dell’uomo e della salute tende a intrappolare la malattia all’interno di metafore belliche (“la patologia è un nemico da sconfiggere”): concezione che confonde la malattia con l’agente patogeno. Invece, la malattia rappresenta la reazione dell’organismo all’agente patogeno. Pertanto, è necessario introdurre metafore che rimandino a concetti di cooperazione tra la reazione dell’organismo e le cure: da qui l’uso dell’espressione ‘intenzionalità di guarigione’ ad indicare come la mente e la cura si influenzino vicendevolmente al fine di creare, quindi, quella cooperazione che può consentire il ritorno al benessere.
L’autore ricostruisce storicamente come l’influenza della fisica classica (modello meccanicistico) abbia portato a rappresentare l’uomo ‘un soggetto biologicamente determinato’, nelle scienze psicologiche e mediche. Successivamente, la spinta delle teorie sociologiche e antipsichiatriche ha consentito di inglobare la dimensione relazionale (nel modello bio-psico-sociale, che tutt’oggi è il riferimento per gli operatori di cura). Pagliaro e colleghi (A.Salvini, G. De Leo, G.Turchi, E.Faccio) hanno teorizzato un modello antropomorfico, proponendo una visione eco-interazionista della salute, della cura e della psicoterapia (Salvini, 2004). Per fare ciò integrarono le ultime ricerche scientifiche sugli effetti del placebo (Benedetti, 2018) e sulla fisica quantistica (Plank,1935, colui che introdusse il termine ‘quanto’).
Nel libro si approfondiscono i concetti di entanglement quantistico, di biocampo, il paradigma di ‘scienza nella coscienza’ fondato da A.Goswami, il termine ‘biofotoni’ coniato da A.Gurwitsch. Pagliaro racconta le più recenti ricerche del premio Nobel per la fisica R.Penrose e dell’anestesista S.Hameroff, i quali, oltre ipotizzare la presenza di fenomeni quantistici nelle sinapsi e nei microtuboli, rilevano che la mente svolge un ruolo determinante nella creazione e nella condivisione della realtà: definendo le proprietà dei fenomeni osservati.
Sembrerebbe, quindi, che l’uomo sia parte dell’universo, non solo per l’origine dei costituenti dell’organismo e per le sostanze chimiche in circolo in esso, ma anche per quanto riguarda le leggi fisiche che lo governano. Tutti gli esseri viventi sono pervasi dall’azione di questo scambio, che, se genera stati di coerenza, favorisce la salute.
Si aprono maggiori possibilità terapeutiche da sviluppare e approfondire nella cura. L’autore offre suggerimenti utili nella pratica clinica, sull’uso consapevole dell’intenzionalità di guarigione, al fine di creare cooperazione e consentire il ritorno al benessere.
Un libro molto interessante e capace di integrare scienza e coscienza nella quotidianità dell’incontro con sè stessi, con l’altro e con ciò che ci circonda.
Bibliografia
-Benedetti F., La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia. Mondadori, Milano 2018.
-Hameroff S., Penrose R., Orchestrated Reduction of Quantum Coherence in brain microtubules: a model for Consciousness. In “Mathematics and computers in simulation”, n.40 pp.453-480,1996.
-Plank M., The universein the light of modern Physic. Allen and Unwin, Londra, 1935. -Salvini A., Psicologia Clinica. Domenighini Editore, Padova 2004.
Dr.ssa Mara Fantinati
I concetti base dell'universo LGBTI
Tutti noi abbiamo dei pregiudizi, i più vari, sui più vari argomenti. L’importante è riconoscerli, favorirne la consapevolezza e trovare le strade più opportune per confrontarli con la realtà. In questo modo, spesso, ci liberiamo da paure che scopriamo essere infondate, impariamo e possiamo modificare il nostro comportamento e convivere con ciò che è diverso da noi.
Una delle strade più valide per abbattere il pregiudizio è la conoscenza, la corretta informazione. Scopo di questo articolo è fornire una breve cornice che fornisca le necessarie coordinate per muoversi nell’universo lgbti.
Partiamo con definire l’identità e l’identità sessuale.
L’identità comincia a svilupparsi sin dall’infanzia come interfaccia tra il Sé e l’Altro. Il bambino investe affettivamente le persone che lo circondano e che si prendono cura di lui, contemporaneamente anche queste persone investono affettivamente sul bambino attraverso la cura l’educazione, la trasmissione di valori, in modi consapevoli ma anche automatici.
L’identità sessuale è una dimensione soggettiva e personale del proprio essere sessuato. E’ l’esito di un complesso processo denotato dall’interazione tra aspetti biologici, psicologici, socioculturali ed educativi. L’identità sessuale è composta da 4 fattori: il sesso biologico, l’identità di genere, l’orientamento sessuale ed il ruolo di genere.
Il sesso biologico è l’appartenenza ad una categoria biologica e genetica, ovvero maschio/femmina. La lettera I designa le persone intersessuali cioè quelle persone che fin dalla nascita e per uno sviluppo atipico dei caratteri sessuali, presentano caratteristiche biologiche non facilmente attribuibili ad uno dei due sessi.
L’identità di genere è il riconoscimento soggettivo e profondo di appartenere ad un sesso e di non appartenere all’altro. E’ un processo che inizia dalla nascita ed è multifattoriale perché è il risultato di interazioni tra biologia, attitudini genitoriali, educazione e contesto socioculturale.
Esistono alcune persone che vivono una discordanza tra il sesso biologico e l’identità di genere. Ad esempio una persona nata con il sesso maschile può crescere e sentirsi come una donna. Il vissuto soggettivo riportato è spesso quello di sentirsi intrappolati in un corpo sbagliato. Questa condizione identitaria definita identità transgender (lettera T) può causare molte sofferenze perché il cammino di accettazione di sé può essere difficile spesso amplificato dalla disapprovazione sociale e famigliare.
Rientrano in questa dimensione:
Transessuali: generalmente si sottopongono a trattamenti ormonali e/o chirurgici per cambiare (femminilizzare o mascolinizzare) il proprio corpo;
Crossdresser: indossano vestiti tipicamente associati al genere opposto a quello loro assegnato alla nascita;
Genderqueer: non sentono di appartenere né al genere maschile né femminile e che, indipendentemente dal sottoporsi o meno ad interventi di RCS (riassegnazione chirurgica del sesso), rifiutano i binarismi di genere;
Drag queen e drag king: indossano abiti tipici del genere opposto adottando atteggiamenti iper- femminili o iper- maschile
Oggi non si parla più di disturbo dell’identità di genere che metteva al centro la patologia ma di disforia di genere intesa come sofferenza, legata al vissuto della propria identità di genere.
L’orientamento sessuale indica la direzione della sessualità di una persona indipendentemente dal genere a cui tale individuo appartiene. E’ inteso come l’insieme di sentimenti, pensieri erotici e fantasie sessuali verso una persona dello stesso sesso (omosessualità), di sesso opposto (eterosessualità) o di ambi i sessi (bisessualità). Sono tutte varianti naturali del comportamento umano. LGB: lesbiche, gay, bisex.
Il ruolo di genere. L’insieme di ruoli, comportamenti, emozioni, spazi, attitudini che la società si aspetta che ognuno di noi assuma come conseguenza di avere un sesso biologico maschile o femminile si chiama genere. Il genere è una costruzione socio culturale che definisce confini rigidi tra ciò che vuol dire esser uomo e essere donna. Ci si aspetta ad esempio che una bambina giochi con le bambole e un bambino con le macchinine. La rigidità di tale visione determina stereotipi di genere.
Dentro questa cornice teorica esistono svariate unicità difficilmente riconducibili a categorie predefenite.
Dott.ssa Katia Guadagnini
Trauma e Yoga
La parola trauma deriva dal greco e significa ferita. Questa ferita è una frattura, se la consideriamo dal punto di vista del funzionamento del corpo. Questa ferita è dell’anima, se la osserviamo da un punto di vista psicologico: l'etimologia del termine psiche (dal greco ψυχή, connesso con ψύχω, "respirare, soffiare") si riconduce all'idea del 'soffio', cioè del respiro vitale; presso i greci designava l'anima in quanto originariamente identificata con quel respiro. Pertanto il concetto di trauma integra l’idea di una discontinuità di funzionamento tra un prima e un dopo, rispetto ad un evento che causa questa frammentazione nel fluire della vita, fisica e psichica.
Il termine yoga, deriva dal sanscrito (devanāgarī: योग) e porta con sè diverse definizioni, che nel complesso sottendono sempre all’idea di un cambiamento, che conduce ad un punto mai raggiunto precedentemente. Ripercorrendo i secoli, troviamo l’idea che lo yoga è lo sviluppo, da uno stato a un altro, più elevato; lo yoga è l’unione, l’unificazione di due cose; lo yoga è azione compiuta con attenzione totale e continua.
Potremmo quindi pensare che vivere un’esperienza traumatica generi effetti sia sul corpo sia sulla psiche e che praticare yoga potrebbe sviluppare un cambiamento, che integri quei vissuti frammentati, dall’esperienza traumatica, permettendogli di evolvere verso uno stato di salute. Per aiutare le persone che sviluppano un Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), a seguito di traumi singoli o complessi, all’interno del Trauma Center di Brookline (USA) è nato il Trauma Center Trauma
Sensitive Yoga (TCTSY)
David Emerson, autore del TCTSY e direttore del Center for Trauma and Embodiment al Justice Resource Institute, ha affermato che un numero crescente di studi dimostra i benefici dello Yoga sia per problemi medico-organici sia per disturbi legato alla salute psicologica. Le persone che sviluppano un PTSD spesso mostrano una sintomatologia che ostacola la possibilità di creare uno spazio di fiducia personale e interpersonale, utile ad ascoltare e riconoscere le ferite del corpo, in quanto esse sono automaticamente associate alle ferite dell’anima. I ricordi traumatici, caratterizzati dall’insieme di immagini, pensieri, emozioni e sensazioni del corpo, tendono ad essere evitati/rimossi poiché ‘pericolosi’ per il sistema di sopravvivenza. Pertanto, per renderli più accessibili e ‘digeribili’ lo yoga può esser inserito in un percorso di trattamento di cura del PTSD.
David Emerson ha sviluppato un modello di Yoga più vicino alle esigenze delle persone con una storia di trauma complesso, caratterizzato da una combinazione tra pose (posture) e attenzione al respiro, in cui il concetto di possibilità e libertà ad accedere ad esse, consente di accrescere la fiducia personale nell’esplorare le percezioni interne. Questo strumento di trattamento potenzia quindi l’esperienza di sicurezza interpersonale e migliora il grado di consapevolezza dei blocchi fisici ed emotivi, attraverso l’ascolto delle sensazioni del corpo e il riconoscimento delle interpretazioni ad esse associate, mentre le pose fluiscono e possono esser liberamente interrotte e modificate dalla persona durante la pratica: aspetto fondamentale per consentire lo sviluppo della fiducia intra e interpersonale.
Mara Fantinati
Psicologa Psicoterapeuta Sessuologa
Supervisore EMDR, Insegnante Odaka Yoga
- Desikachar T.K.V. ‘Il cuore dello yoga. Come sviluppare una pratica personalizzata’. 1995. Ubaldini
Editore-Roma
- Emerson D. ‘Trauma Sensitive Yoga in Therapy. Bringing the Body into Treatment’. 2015, WW
Northon & Co