Il gioco d'Azzardo Patologico (GAP)
Il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) è riconosciuto ufficialmente dalla comunità scientifica come patologia dal 1980. Oggi si parla di disturbo da gioco d’azzardo (gambling) ed è definito come dipendenza comportamentale in quanto vengono attivati sistemi di ricompensa del cervello con effetti simili a quello delle droghe. La dipendenza è data, in questi casi dal comportamento invece che dalla sostanza.
Affinchè il gioco d’azzardo diventi da ricreativo a problematico è necessario considerare alcuni sintomi specifici: l’intensificazione degli accessi al gioco; un aumento delle spese; la comparsa di pensieri ricorrenti di gioco spesso accompagnati da distorsioni cognitive e fantasie di super vincite; aumento della ricerca di ambienti di gioco.
Il passaggio ad una dimensione patologica richiede: la comparsa di meccanismi difensivi di negazione con aumento della menzogna; depauperimento delle risorse economiche con indebitamenti; modificazioni delle abitudini di vita; cambiamenti dell’umore, aumento dell’aggressività; cambiamenti delle rete sociale e dei luoghi di frequentazione abituali. Da un punto di vista socio ambientale è frequente la presenza di problemi sul lavoro come l’assenteismo, il calo delle prestazioni fino alla perdita del lavoro stesso. Sono riscontrabili inoltre problemi in famiglia con conflitti con coniuge e figli e difficoltà economiche importanti.
Nei casi più gravi sono presenti anche tentativi di suicidio o suicidi portati a termine spesso con, associate, sintomatologie depressive, indebitamento consistente e difficoltà relazionali. L’incontrollabilità del comportamento di gioco insieme ai problemi finanziari possono far avvicinare la persona alle organizzazioni criminali del gioco illegale e soprattutto all’usura.
Lo sviluppo di questa dipendenza presuppone che ci sia una vulnerabilità preesistente al contatto con il gioco d’azzardo e, spesso ma non sempre, anche con le sostanze stupefacenti. Se questo contatto avviene in carenza di fattori protettivi
( scarso attaccamento parentale, deficit del controllo famigliare, bassa presenza di sistemi sociali protettivi) esiste il rischio che si instauri una vera e propria forma di addiction (dipendenza)
Gli elementi di vulnerabilità sono caratterizzati da una combinazione di fattori: fattori individuali intesi come alterazioni neurobiologiche che coinvolgono il sistema centrale della gratificazione; fattori psicosociali: il contesto favorente dato da relazioni famigliari conflittuali con scarsità di attenzione e prevenzione che tollera e promuove attivamente il gioco; fattori ambientali in relazione al facile accesso al gioco e l’effetto psicologico gratificante ed inibente su ansia, depressione e noia.
Il decorso comportamentale del GAP può essere rappresentato attraverso 7 fasi
( Rosenthal 1992).
La prima, di solito, è rappresentata dalla vincita, da un senso di prestigio e potere spesso accompagnata da onnipotenza.
La seconda fase è quella della perdita inaspettata con conseguente rincorsa della vincita desiderata ma seguita da continue perdite, con un andamento a spirale.
La terza fase viene descritta come la fase della disperazione con eventuale coinvolgimento in attività illegali, fantasie di fuga e spesso pensieri suicidari.
La quarta è la fase della rinuncia e della richiesta d’aiuto con incremento dei pensieri suicidari.
La quinta fase è quella del trattamento intensivo con tutte le difficoltà inerenti all’aderenza, alle prescrizioni e all’insorgere del craving ( inteso come desiderio irresistibile che comporta perdita di controllo) durante il trattamento.
La sesta fase è la fase della recidiva che può durare anche a lungo e del successivo ritorno alla cure.
La settima fase può avere due alternative: può essere quello del comportamento controllato con astinenza dal gioco o quello della continuazione del gioco patologico con aumento dei problemi finanziari.
Non solo le persone con GAP ma anche i famigliari possono ricorrere all’aiuto di professionisti sia nel pubblico (Ser.D territoriali) sia nel privato.
Dott.ssa Katia Guadagnini
Cos'è il perfezionismo?
Cos’è il perfezionismo?
Il perfezionismo è un costrutto multidimensionale e si riferisce al desiderio di raggiungere i più alti standard di performance unito alla tendenza a essere eccessivamente autocritici Frost RO et al., 1990; Hewitt PL, Flett GL, 1991).
Quando parliamo di perfezionismo dobbiamo distinguere tra il desiderio sano e adattivo di migliorarsi e mantenere standard elevati di rendimento, da un perfezionismo disfunzionale che ci porta invece a esperire frequentemente vissuti di ansia, tristezza, senso di colpa e rabbia e che può associarsi a diversi disturbi psicologici. In questo caso è presente un’esagerata preoccupazione di commettere errori, il perseguimento di standard personali irragionevoli e troppo elevati con conseguenti vissuti di inadeguatezza, un rigido autocriticismo e un’intensa percezione degli altri come critici ed esigenti.
Come si può capire se si ha un problema di perfezionismo patologico? Prova a rispondere a queste domande:
- Ti capita di essere così preoccupato di riuscire bene in ciò che fai da compromettere il rendimento effettivo del tuo lavoro?
- Ti capita di non rispettare le scadenze perché cerchi di eseguire anche la minima incombenza alla perfezione?
- Il tuo perfezionismo incide negativamente nel rapporto con colleghi o nei rapporti interpersonali in generale?
- Ti capita che qualcuno dei tuoi amici o familiari si lamenti del fatto che devi fare tutto alla perfezione?
- Ti capita di far aspettare altre persone a causa del tuo perfezionismo?
- Ci sono persone vicino a te che credono sia impossibile essere all’altezza delle tue aspettative?
- Il tuo perfezionismo ti impedisce di apprezzare il tempo libero?
- Quando ti dedichi a un hobby o pratichi uno sport ti sembra di “lavorare”?
- Senti l’esigenza di fare tutto alla perfezione anche quando cerchi di rilassarti o divertirti?
Se la risposta alla maggioranza delle domande è si, potrebbe essere utile parlarne con un professionista.
I pensieri del perfezionismo patologico
Avere un perfezionismo rigido porta a pensare in modo dicotomico in una modalità “tutto o niente” interpretando qualsiasi cosa come assolutamente giusta o assolutamente sbagliata senza riuscire a vedere le diverse sfumature possibili a seconda delle situazioni. L’ attenzione si concentra solo sugli aspetti negativi di una situazione portando a sopravvalutarne l’importanza con la convinzione di essere oggetto di giudizio critico da parte di altri. Il perfezionismo porta a fare pensieri catastrofici associati all’idea di non essere in grado di affrontare le conseguenze negative di un avvenimento. Si tende a pensare che rinunciare a standard troppo elevati sia inaccettabile e che sia possibile tenere tutto sotto controllo sentendosi eccessivamente responsabili nel dover predire e controllare qualsiasi imprevisto. Questo porta a rimuginare continuamente e a farsi guidare da affermazioni prescrittive verso se stessi e verso gli altri “dovrei/dovrebbe” portando a sentirsi facilmente ansiosi o arrabbiati.
Le conseguenze comportamentali del perfezionismo
È possibile suddividere i comportamenti perfezionistici in due tipologie principali:
- Comportamenti volti a soddisfare standard eccessivamente elevati: controllare ripetutamente la correttezza delle proprie azioni, ripetere più volte le stesse azioni per sentirsi più sicuri, passare molto tempo ad occuparsi di dettagli divenendo molto lenti nello svolgere lavori, non riuscire a prendere decisioni per paura di commettere un errore, cercare continue rassicurazioni, correggere spesso gli altri, non riuscire a delegare per poca fiducia nelle capacità altrui sovraccaricandosi di impegni.
- Comportamenti volti a evitare tutte le situazioni che possono attivare tali standard: rimandare/evitare impegni e l’inizio di attività o abbandonare prematuramente un obbiettivo perché non ci si sente abbastanza pronti o in grado di raggiungere la perfezione.
Tutti questi comportamenti se eccessivi ci possono portare ad avere risultati opposti da quelli sperati perdendo completamente il controllo sulla propria esistenza.
Per riuscire a gestire meglio questo problema può essere utile iniziare un percorso di psicoterapia volto a comprendere e lavorare sui pensieri rigidi cercando così di flessibilizzare il modo di pensare con l’obbiettivo di rendere il desiderio di migliorarsi e mantenere standard elevati una risorsa adattiva e non un problema che ostacola la vita sociale, interpersonale e lavorativa.
Dott.ssa Luana Lazzerini
Lo stress e la sindrome del colon irritabile (IBS)
Lo stress è un elemento naturale ed inevitabile nella vita che richiede un adattamento da parte dell’individuo. Anche i nostri stessi tentativi di rispondere ad una pressione o a un cambiamento possono essere fonte di stress in quanto non adeguati.
Secondo Seyle la malattia risulta essere un fallito tentativo di adattamento a condizioni stressanti e sono definiti “stressors” tutti gli stimoli interni o esterni (fisici, biologici o psicosociali) che ci causano stress.
Il cervello svolge un ruolo cruciale nel regolare il funzionamento dei processi che contribuiscono al nostro essere vivi.
Quando lo stress giunge al punto in cui la mente individua o immagina una minaccia per il proprio benessere fisico, per il senso di identità o per la propria posizione sociale, essa reagisce in un modo particolare e mette automaticamente in moto il sistema di allarme (l’amigdala) che ci spinge verso la reazione di attacco o fuga.
Certamente la reazione di attacco o fuga accresce la possibilità di sopravvivenza di un animale in una situazione pericolo. Questo non è un riflesso automatico ma una capacità intelligente ed evoluta per gestire situazioni complesse in cui è in gioco la sopravvivenza stessa. Le cose si mettono male quando non siamo in grado di servircene costruttivamente e agisce in noi in modo incontrollato in situazioni che in realtà non costituiscono un pericolo per la nostra vita.
Noi non incontriamo un leone mentre andiamo al lavoro, eppure la nostra mente percepisce gli eventi in termini di minaccia mortale per il nostro sistema e l'emozione esperita sarà tanto più intensa quanto più sarà grande la minaccia percepita. La reazione somatica al presunto pericolo è una reazione di allarme sostenuta da un aumento del tono adrenergico che mette l'organismo nelle condizioni migliori per combattere o fuggire. In tal modo i nostri canali di allarme restano cronicamente attivati. Questo ci espone a problematiche sia fisiche che psicologiche: aumentano le malattie infiammatorie, si accelera l’invecchiamento cellulare, rischio di diabete e alterazioni dell’appetito. Ognuno di noi sembra avere una parte del corpo preferenziale in cui si accumulano le tensioni: la mandibola, le spalle, il ritmo cardiaco accelerato, le mani sempre sudate, l’intestino. Questa reazione di stress incontrollata, quando diventa cronica può avere gravi conseguenze per la nostra salute fisica e psicologica.
La sindrome dell'intestino irritabile (IBS) è il disturbo gastrointestinale funzionale più diffuso che colpisce la qualità della vita di oltre il 15% della popolazione.
L'IBS è una condizione cronica e i sintomi includono: crampi, dolore addominale, gonfiore, gas e diarrea o costipazione, o entrambi.
Nel 50% dei casi non esiste una causa organica chiaramente dimostrabile. I medici visitano il paziente dalla testa ai piedi e non trovano niente di anormale.
Circa l’80% dei pazienti con IBS soffrono di disturbi psicologici, come depressione, panico, agorafobia e semplici fobie; l’altro 20%, che non soddisfa i criteri per un disturbo psicologico, lamenta paure e preoccupazioni che sono collegate direttamente ai loro sintomi e che possono contribuire notevolmente all’abbassamento del loro benessere, compromettendo la vita sociale, lavorativa ed affettiva.
Quando una persona sperimenta un sintomo come il dolore, può avere pensieri negativi sul dolore che causano paura e/o frustrazione, queste emozioni negative mettono il corpo in una risposta di "lotta o fuga", con un aumento degli ormoni dello stress, della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca. I cambiamenti nell'intestino fanno parte di questa reazione al pericolo che il corpo pensa di affrontare e possono includere diarrea, costipazione, dolore o disagio.
Il collegamento tra le malattie dell'apparato digerente e le malattie psicologiche indica la particolare relazione esistente tra il cervello e l'intestino. Il percorso tra il cervello e l'intestino è chiamato asse cervello-intestino, e si basa su messaggeri chimici per comunicare informazioni avanti e indietro sulla nostra digestione, appetito, pensieri ed emozioni. Tra i messaggeri chimici abbiamo la Serotonina nota per il suo impatto su umore, sonno, appetito e desiderio sessuale. Quindi il nostro stato emotivo è strettamente legato al funzionamento del nostro tratto gastrointestinale o meglio il funzionamento del nostro tratto gastrointestinale influenza le nostre emozioni e le nostre emozioni influenzano il funzionamento del nostro tratto gastrointestinale.
Tra le tecniche di psicoterapia nei pazienti con IBS, la CBT (Terapia cognitivo-comportamentale) è molto efficace nel diminuire l'ansia, l'agitazione e la depressione, nell'utilizzare le abilità di coping ed alleviare il dolore e altri sintomi.
La CBT si basa sulla convinzione che i nostri pensieri (cognizioni), emozioni e comportamenti sono tutti collegati: i pensieri disfunzionali “non utili” influiscono negativamente su come ci sentiamo e queste emozioni negative possono influire su come ci comportiamo. Prendendo consapevolezza e modificando i nostri pensieri e comportamenti per renderli più funzionali, possiamo migliorare il nostro stato emotivo.
Pertanto se impariamo a riconoscere la tendenza a entrare direttamente in una reazione di stress e impariamo a modularla con una risposta più consapevole, ossia se impariamo a riconoscere che la nostra valutazione istantanea di una minaccia è spesso erronea e genera inutile sofferenza e paura, possiamo migliorare il nostro benessere.
Dottoressa Enza Cannavale
- Irritable bowel syndrome treatment: cognitive behavioral therapy versus medical treatment Majid Mahvi-Shirazi, Ali Fathi-Ashtiani, Sayed-Kazem Rasoolzade- Tabatabaei, and Mohsen Amini, 2012
- Irritable bowel syndrome_ Mayo Clinic, 2021
- B. Toner, Z. Segal, S. Emmott, D. Myran “Cognitive-Behavioral Treatment of Irritable Bowel Syndrome” Guildfor Press 2000
- Cognitive Behavioral Therapy for IBS and Other FGIDs by Alyse Bendell, MS; Northwestern University Feinberg School of Medicine, and Laurie Keefer, PhD, Icahn School of Medicine, Mount Sinai, New York, NY, Adapted by Abigale Miller, 2021
Salute mentale perinatale
L’arrivo di un figlio, soprattutto quando corrisponde alla realizzazione di un desiderio, è solitamente associato a una attesa di felicità: un “lieto evento”, per l’appunto. Allo stesso tempo non bisogna però sottovalutare che per i neogenitori rappresenta l’inizio di una fase di vita del tutto nuova, ricca di intense esperienze – fisiche, emotive, relazionali – perlopiù inedite e non sempre facili da gestire.
Diventare genitori è un passaggio evolutivo, che per quanto “naturale”, porta con sé importanti cambiamenti, e che quindi richiede altrettanto importanti adattamenti: sia su un piano concreto – possiamo pensare al cambiamento del corpo della donna in gravidanza, alla modifica dei ritmi sonno-veglia, dello stile di vita incentrato sull’accudimento del bambino; sia dal punto di vista psicologico e sociale, con il nuovo ruolo genitoriale che richiede una ridefinizione della propria identità e anche un riposizionamento relazionale.
In questo senso il periodo perinatale – inteso come arco di tempo che va dalla gravidanza a un anno dopo il parto – si presenta come un periodo di vita complesso, con molteplici criticità, e va considerato come un momento di potenziale vulnerabilità per madri e padri. Da un punto di vista psicologico, tutte queste nuove sollecitazioni possono infatti minare l’equilibrio della persona e della coppia, che può trovarsi a vivere momenti di difficoltà, di disagio emotivo: una sofferenza psicologica che nella maggior parte dei casi è transitoria, soprattutto se riconosciuta e gestita, ma che a volte può portare anche allo sviluppo, o al riemergere, di un vero e proprio disturbo mentale.
Sono molteplici le tipologie di psicopatologia che possono presentarsi in epoca perinatale, sia nella donna che nell’uomo: disturbi del tono dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare, da uso di sostanze, fino a diverse forme di psicosi. L’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere stima che nel nostro Paese siano oltre 90.000 le donne che soffrono di disturbi depressivi e di ansia nel periodo perinatale, e che ne siano colpite circa il 16% delle donne nel periodo della maternità: stime ritenute molto approssimative, poiché i sintomi sono spesso sottovalutati sia dalle pazienti sia dai clinici. Nel periodo perinatale chiedere aiuto risulta infatti più difficile, per la difficoltà di riconoscere di avere un problema – per non essere consapevoli del significato dei propri sintomi, o per non riuscire a comunicare come ci si sente –, ma anche per lo stigma già comunemente associato al disagio mentale, che in questa fase di vita risulta ancora più pesante, accompagnandosi a vissuti di inadeguatezza e di colpa.
Le conseguenze di un malessere non identificato e non adeguatamente trattato sono però significative: le evidenze scientifiche hanno dimostrato l’importanza dello stato emotivo della madre durante la gravidanza per il neurosviluppo del feto e quindi del bambino, scoprendo che a incidere non sono solo lo stress estremo o un disturbo mentale diagnosticato, ma anche fattori di disagio come sintomi di ansia e depressione prenatale, circostanze di vita stressanti e problemi quotidiani. Non è chiaro se tipi di stress diversi portino come risultato effetti diversi. Ciò che è assodato è che i disturbi mentali nel periodo perinatale abbiano un significativo impatto sulla vita della donna, sul bambino, sulla relazione mamma-bambino e su tutta la famiglia; con inoltre ricadute considerevoli, anche solo in termini di costi sociali ed economici, sull’intera comunità.
Negli ultimi anni la ricerca si è dedicata anche allo studio dell’impatto del benessere psicologico paterno, scoprendo che la depressione nei padri è più frequente di quanto si pensasse e che anche in questo caso essa è a sua volta associata a effetti negativi sullo sviluppo del bambino.
Il periodo perinatale risulta quindi essere una fase cruciale del ciclo di vita, con importanti ripercussioni anche sul lungo termine. Anche per questo merita una specifica attenzione: la psicologia perinatale è una branca della psicologia che si pone proprio l’obiettivo di studiare, promuovere e tutelare il benessere psicologico in questa delicata fase esistenziale, con la consapevolezza dell’importanza di offrire supporto e interventi efficaci in tutte quelle situazioni che possono creare stress e sofferenza emotiva prima e dopo il parto, poiché il riconoscimento tempestivo e la presa in carico di un disagio emotivo o di un disturbo psicopatologico, nella madre o nel padre, è di fondamentale importanza per la tutela della salute dei bambini, che saranno gli adulti di domani.
Dott.ssa Vittoria Castagner
Bibliografia:
Anniverno R., Bramante A., Petrilli G., Mencacci C. (a cura di) Prevenzione, diagnosi e trattamento della psicopatologia perinatale. Linee guida per professionisti della salute. O.N.D.A. 2014.
Howard L.M., Piot P., Stein A. No health without perinatal mental health. Lancet, Vol. 384, No. 9956, 15.11.2014, p. 1723-1724.
Quatraro R.M. e Grussu P. (a cura di). Psicologia clinica perinatale. Dalla teoria alla pratica. Erickson, Trento, 2018.
Quando la tristezza diventa depressione
È esperienza comune utilizzare e sentire frasi che attingono al mondo della psicologia e che sono diventate parte integrante del nostro vocabolario: “ho l’ansia”, “mi vengono le paranoie”, “mi sento depresso”. Tuttavia tale terminologia è talvolta usata in maniera inappropriata rispetto al reale significato delle parole scelte.
Ricordiamo che il nostro modo di narrarci influenza la nostra percezione ed esperienza di noi stessi, è dunque importante notare come ci raccontiamo.
Ad esempio può capitare che la tristezza venga scambiata per depressione.
Ma quando un’emozione di tristezza sfocia in uno stato depressivo?
La tristezza è un’emozione che tutti nella vita sperimentiamo, e sebbene considerata spesso spiacevole, svolge per noi funzioni importanti sia a livello relazionale che personale: in una situazione di perdita (non pensiamo solo al lutto, ma consideriamo il termine in senso lato), ci permette di fermarci per accogliere la situazione, analizzarla, capire che qualcosa non va ed elaborare il tutto. Tale elaborazione spesso porta a nuovi punti di vista e sollecita in noi cambiamenti. Ecco quindi che si rivela importante accogliere ed ascoltare questa emozione, starci in contatto, per quanto a volte difficile e doloroso possa risultare (lo stesso vale per tutte gli altri stati emotivi che viviamo quotidianamente).
A livello relazionale, i correlati corporei della tristezza comunicano all’altro la nostra difficoltà e rendono possibile una risposta di aiuto e vicinanza. Il nostro sistema di attaccamento lancia dunque un segnale di aiuto.
La tristezza è quindi un’emozione funzionale, che ha motivo di esistere e che ci può anche essere utile nel farci trovare uno slancio al cambiamento.
Quando possiamo parlare di Disturbo Depressivo Maggiore, più comunemente conosciuto come depressione? Il DSM 5 (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) ci viene in aiuto nel delineare i criteri che caratterizzano questo stato di sofferenza. Considerando che esistono molteplici sfumature di sofferenza e che le forme depressive sono varie, le linee guida individuano nel Disturbo Depressivo Maggiore alcune caratteristiche quali un umore depresso per la maggior parte del giorno; una diminuzione del piacere o interesse in attività che generalmente consideriamo piacevoli; possono essere presenti disturbi del sonno e disturbi dell’appetito, con conseguenti aumento o perdita di peso. Le altre persone potrebbero farci notare che siamo più agitati o al contrario più lenti del solito. Potremmo notare difficoltà a concentrarci e sentimenti di colpa o autosvalutazione. Potrebbero presentarsi inoltre pensieri di morte.
È bene sottolineare che quando parliamo di salute mentale e di benessere parliamo di un “continuum”, nel quale possiamo sentirci più o meno bene, non pensiamo dunque a uno stato in benessere o malessere assoluti, come se fosse presente un interruttore che ci fa passare da una modalità on a una modalità off. Possono presentarsi dunque momenti di vita in cui la tristezza è particolarmente intensa e pervasiva, senza parlare necessariamente di depressione, e che necessitano comunque della giusta cura e attenzione.
Aldilà dei criteri quindi, qualora ci trovassimo in uno stato di difficoltà e di malessere, non esitiamo a rivolgerci a professionisti che possano prendersi cura di noi e ci aiutino ad affrontare il momento doloroso.
Dott.ssa Valentina Pajola
Intenzionalità di guarigione. La mente e la cura nel mondo dei quanti
Recensione del libro:
‘INTENZIONALITA’ DI GUARIGIONE. LA MENTE E LA CURA NEL MONDO DEI QUANTI’ Autore Gioacchino M. Pagliaro
Edizioni AMRITA. Anno 2021
La vita è la ricerca della sintonia con la saggezza dell’universo. In questa frase di apertura al libro, l’autore sintetizza tutto ciò che spiegherà, con prove scientifiche, promuovendo l’introduzione dei principi quantistici, nell’azione di cura. L’attuale visione della vita, dell’uomo e della salute tende a intrappolare la malattia all’interno di metafore belliche (“la patologia è un nemico da sconfiggere”): concezione che confonde la malattia con l’agente patogeno. Invece, la malattia rappresenta la reazione dell’organismo all’agente patogeno. Pertanto, è necessario introdurre metafore che rimandino a concetti di cooperazione tra la reazione dell’organismo e le cure: da qui l’uso dell’espressione ‘intenzionalità di guarigione’ ad indicare come la mente e la cura si influenzino vicendevolmente al fine di creare, quindi, quella cooperazione che può consentire il ritorno al benessere.
L’autore ricostruisce storicamente come l’influenza della fisica classica (modello meccanicistico) abbia portato a rappresentare l’uomo ‘un soggetto biologicamente determinato’, nelle scienze psicologiche e mediche. Successivamente, la spinta delle teorie sociologiche e antipsichiatriche ha consentito di inglobare la dimensione relazionale (nel modello bio-psico-sociale, che tutt’oggi è il riferimento per gli operatori di cura). Pagliaro e colleghi (A.Salvini, G. De Leo, G.Turchi, E.Faccio) hanno teorizzato un modello antropomorfico, proponendo una visione eco-interazionista della salute, della cura e della psicoterapia (Salvini, 2004). Per fare ciò integrarono le ultime ricerche scientifiche sugli effetti del placebo (Benedetti, 2018) e sulla fisica quantistica (Plank,1935, colui che introdusse il termine ‘quanto’).
Nel libro si approfondiscono i concetti di entanglement quantistico, di biocampo, il paradigma di ‘scienza nella coscienza’ fondato da A.Goswami, il termine ‘biofotoni’ coniato da A.Gurwitsch. Pagliaro racconta le più recenti ricerche del premio Nobel per la fisica R.Penrose e dell’anestesista S.Hameroff, i quali, oltre ipotizzare la presenza di fenomeni quantistici nelle sinapsi e nei microtuboli, rilevano che la mente svolge un ruolo determinante nella creazione e nella condivisione della realtà: definendo le proprietà dei fenomeni osservati.
Sembrerebbe, quindi, che l’uomo sia parte dell’universo, non solo per l’origine dei costituenti dell’organismo e per le sostanze chimiche in circolo in esso, ma anche per quanto riguarda le leggi fisiche che lo governano. Tutti gli esseri viventi sono pervasi dall’azione di questo scambio, che, se genera stati di coerenza, favorisce la salute.
Si aprono maggiori possibilità terapeutiche da sviluppare e approfondire nella cura. L’autore offre suggerimenti utili nella pratica clinica, sull’uso consapevole dell’intenzionalità di guarigione, al fine di creare cooperazione e consentire il ritorno al benessere.
Un libro molto interessante e capace di integrare scienza e coscienza nella quotidianità dell’incontro con sè stessi, con l’altro e con ciò che ci circonda.
Bibliografia
-Benedetti F., La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia. Mondadori, Milano 2018.
-Hameroff S., Penrose R., Orchestrated Reduction of Quantum Coherence in brain microtubules: a model for Consciousness. In “Mathematics and computers in simulation”, n.40 pp.453-480,1996.
-Plank M., The universein the light of modern Physic. Allen and Unwin, Londra, 1935. -Salvini A., Psicologia Clinica. Domenighini Editore, Padova 2004.
Dr.ssa Mara Fantinati
I concetti base dell'universo LGBTI
Tutti noi abbiamo dei pregiudizi, i più vari, sui più vari argomenti. L’importante è riconoscerli, favorirne la consapevolezza e trovare le strade più opportune per confrontarli con la realtà. In questo modo, spesso, ci liberiamo da paure che scopriamo essere infondate, impariamo e possiamo modificare il nostro comportamento e convivere con ciò che è diverso da noi.
Una delle strade più valide per abbattere il pregiudizio è la conoscenza, la corretta informazione. Scopo di questo articolo è fornire una breve cornice che fornisca le necessarie coordinate per muoversi nell’universo lgbti.
Partiamo con definire l’identità e l’identità sessuale.
L’identità comincia a svilupparsi sin dall’infanzia come interfaccia tra il Sé e l’Altro. Il bambino investe affettivamente le persone che lo circondano e che si prendono cura di lui, contemporaneamente anche queste persone investono affettivamente sul bambino attraverso la cura l’educazione, la trasmissione di valori, in modi consapevoli ma anche automatici.
L’identità sessuale è una dimensione soggettiva e personale del proprio essere sessuato. E’ l’esito di un complesso processo denotato dall’interazione tra aspetti biologici, psicologici, socioculturali ed educativi. L’identità sessuale è composta da 4 fattori: il sesso biologico, l’identità di genere, l’orientamento sessuale ed il ruolo di genere.
Il sesso biologico è l’appartenenza ad una categoria biologica e genetica, ovvero maschio/femmina. La lettera I designa le persone intersessuali cioè quelle persone che fin dalla nascita e per uno sviluppo atipico dei caratteri sessuali, presentano caratteristiche biologiche non facilmente attribuibili ad uno dei due sessi.
L’identità di genere è il riconoscimento soggettivo e profondo di appartenere ad un sesso e di non appartenere all’altro. E’ un processo che inizia dalla nascita ed è multifattoriale perché è il risultato di interazioni tra biologia, attitudini genitoriali, educazione e contesto socioculturale.
Esistono alcune persone che vivono una discordanza tra il sesso biologico e l’identità di genere. Ad esempio una persona nata con il sesso maschile può crescere e sentirsi come una donna. Il vissuto soggettivo riportato è spesso quello di sentirsi intrappolati in un corpo sbagliato. Questa condizione identitaria definita identità transgender (lettera T) può causare molte sofferenze perché il cammino di accettazione di sé può essere difficile spesso amplificato dalla disapprovazione sociale e famigliare.
Rientrano in questa dimensione:
Transessuali: generalmente si sottopongono a trattamenti ormonali e/o chirurgici per cambiare (femminilizzare o mascolinizzare) il proprio corpo;
Crossdresser: indossano vestiti tipicamente associati al genere opposto a quello loro assegnato alla nascita;
Genderqueer: non sentono di appartenere né al genere maschile né femminile e che, indipendentemente dal sottoporsi o meno ad interventi di RCS (riassegnazione chirurgica del sesso), rifiutano i binarismi di genere;
Drag queen e drag king: indossano abiti tipici del genere opposto adottando atteggiamenti iper- femminili o iper- maschile
Oggi non si parla più di disturbo dell’identità di genere che metteva al centro la patologia ma di disforia di genere intesa come sofferenza, legata al vissuto della propria identità di genere.
L’orientamento sessuale indica la direzione della sessualità di una persona indipendentemente dal genere a cui tale individuo appartiene. E’ inteso come l’insieme di sentimenti, pensieri erotici e fantasie sessuali verso una persona dello stesso sesso (omosessualità), di sesso opposto (eterosessualità) o di ambi i sessi (bisessualità). Sono tutte varianti naturali del comportamento umano. LGB: lesbiche, gay, bisex.
Il ruolo di genere. L’insieme di ruoli, comportamenti, emozioni, spazi, attitudini che la società si aspetta che ognuno di noi assuma come conseguenza di avere un sesso biologico maschile o femminile si chiama genere. Il genere è una costruzione socio culturale che definisce confini rigidi tra ciò che vuol dire esser uomo e essere donna. Ci si aspetta ad esempio che una bambina giochi con le bambole e un bambino con le macchinine. La rigidità di tale visione determina stereotipi di genere.
Dentro questa cornice teorica esistono svariate unicità difficilmente riconducibili a categorie predefenite.
Dott.ssa Katia Guadagnini
Trauma e Yoga
La parola trauma deriva dal greco e significa ferita. Questa ferita è una frattura, se la consideriamo dal punto di vista del funzionamento del corpo. Questa ferita è dell’anima, se la osserviamo da un punto di vista psicologico: l'etimologia del termine psiche (dal greco ψυχή, connesso con ψύχω, "respirare, soffiare") si riconduce all'idea del 'soffio', cioè del respiro vitale; presso i greci designava l'anima in quanto originariamente identificata con quel respiro. Pertanto il concetto di trauma integra l’idea di una discontinuità di funzionamento tra un prima e un dopo, rispetto ad un evento che causa questa frammentazione nel fluire della vita, fisica e psichica.
Il termine yoga, deriva dal sanscrito (devanāgarī: योग) e porta con sè diverse definizioni, che nel complesso sottendono sempre all’idea di un cambiamento, che conduce ad un punto mai raggiunto precedentemente. Ripercorrendo i secoli, troviamo l’idea che lo yoga è lo sviluppo, da uno stato a un altro, più elevato; lo yoga è l’unione, l’unificazione di due cose; lo yoga è azione compiuta con attenzione totale e continua.
Potremmo quindi pensare che vivere un’esperienza traumatica generi effetti sia sul corpo sia sulla psiche e che praticare yoga potrebbe sviluppare un cambiamento, che integri quei vissuti frammentati, dall’esperienza traumatica, permettendogli di evolvere verso uno stato di salute. Per aiutare le persone che sviluppano un Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), a seguito di traumi singoli o complessi, all’interno del Trauma Center di Brookline (USA) è nato il Trauma Center Trauma
Sensitive Yoga (TCTSY)
David Emerson, autore del TCTSY e direttore del Center for Trauma and Embodiment al Justice Resource Institute, ha affermato che un numero crescente di studi dimostra i benefici dello Yoga sia per problemi medico-organici sia per disturbi legato alla salute psicologica. Le persone che sviluppano un PTSD spesso mostrano una sintomatologia che ostacola la possibilità di creare uno spazio di fiducia personale e interpersonale, utile ad ascoltare e riconoscere le ferite del corpo, in quanto esse sono automaticamente associate alle ferite dell’anima. I ricordi traumatici, caratterizzati dall’insieme di immagini, pensieri, emozioni e sensazioni del corpo, tendono ad essere evitati/rimossi poiché ‘pericolosi’ per il sistema di sopravvivenza. Pertanto, per renderli più accessibili e ‘digeribili’ lo yoga può esser inserito in un percorso di trattamento di cura del PTSD.
David Emerson ha sviluppato un modello di Yoga più vicino alle esigenze delle persone con una storia di trauma complesso, caratterizzato da una combinazione tra pose (posture) e attenzione al respiro, in cui il concetto di possibilità e libertà ad accedere ad esse, consente di accrescere la fiducia personale nell’esplorare le percezioni interne. Questo strumento di trattamento potenzia quindi l’esperienza di sicurezza interpersonale e migliora il grado di consapevolezza dei blocchi fisici ed emotivi, attraverso l’ascolto delle sensazioni del corpo e il riconoscimento delle interpretazioni ad esse associate, mentre le pose fluiscono e possono esser liberamente interrotte e modificate dalla persona durante la pratica: aspetto fondamentale per consentire lo sviluppo della fiducia intra e interpersonale.
Mara Fantinati
Psicologa Psicoterapeuta Sessuologa
Supervisore EMDR, Insegnante Odaka Yoga
- Desikachar T.K.V. ‘Il cuore dello yoga. Come sviluppare una pratica personalizzata’. 1995. Ubaldini
Editore-Roma
- Emerson D. ‘Trauma Sensitive Yoga in Therapy. Bringing the Body into Treatment’. 2015, WW
Northon & Co
Comunicazione e conflitto. Il ruolo dell’assertività
L’esperienza dell’emergenza sanitaria e dell’attivazione delle misure preventive di chiusura nelle proprie abitazione ha cambiato gli equilibri delle persone che vivono nella stessa casa: famiglie, coppie, coinquilini si sono ritrovati a gestire una vicinanza nuova fonte anche di tensione e conflitti.
Il significato etimologico del termine conflitto deriva da “confligere”, combattere e si palesa come contrasto tra parti opposte. Il conflitto viene generalmente agito con comportamento aggressivo nella modalità passiva o attiva.
Lo stile aggressivo-passivo è caratterizzato da comportamenti inibiti, conformistici e compiacenti. Le persone che utilizzano questa modalità evitano lo scontro adattandosi in maniera eccessiva alle richieste provenienti dal mondo esterno. I bisogni dell’altro diventano più importanti dei propri. Alcuni pensieri tipici: “Io sono inferiore agli altri”; “ Ciò di cui si interessano gli altri è più importante delle cose di cui mi occupo io”; “Non voglio ferire gli altri”. Prova vergogna, imbarazzo, ansia, colpa. Con il tempo la disistima di sé aumenta e si perde il contatto profondo con se stessi.
Lo stile aggressivo-attivo è caratterizzato da comportamenti di dominio, prevaricazione e svalutazione. L’aggressivo è in grado di dire cosa pensa e cosa vuole utilizzando una modalità impositiva che non considera l’esperienza ed il vissuto dell’altro. Alcuni pensieri tipici: “Sono superiore agli altri”; “Gli altri devo accondiscendere senza criticarmi; “Non ho bisogno di nessuno”. Prova impazienza, intolleranza, rabbia, rancore. L’atteggiamento aggressivo può portare ad un’intensificazione della passività dell’altro o, qualora l’interlocutore utilizzi la stessa modalità, a conflitti importanti e rotture relazionali.
Si può apprendere a gestire il conflitto ed imparare ad agire un comportamento assertivo.
L’assertività si declina come la capacità della persona a riconoscere le proprie esigenze (autoconsapevolezza) ed affermarle (esprimerle) in un dato contesto mantenendo un buon rapporto con l’ambiente. La persona assertiva autoafferma i propri bisogni riconoscendo i bisogni dell’altro. Pratica la negoziazione ed il compromesso senza rinunciare a ciò che profondamente sente. Alcuni pensieri tipici: “Posso affermare i miei diritti rispettando quelli degli altri”; “E’ importante credere in se stessi e negli altri”; “Se esprimo il mio dissenso o rifiuto una richiesta non penso, per questo, di trattare male gli altri”. Prova gioia benessere tristezza fastidio perché riesce a “sentire” e ad esprimere tutte le emozioni. Imparare ad essere assertivi porta ad accrescere la fiducia in se stessi, a migliorare la comunicazione e la capacità di gestire i conflitti.
Diventare assertivi è possibile. E’ fondamentale imparare a conoscersi profondamente, comprendere la propria storia ed individuarne i momenti significativi con uno sguardo realistico rivolto a come si vive il proprio presente.
La comunicazione efficace e l’ascolto attivo giocano un ruolo fondamentale. Tali abilità possono essere apprese in percorsi psicologici pensati ad hoc.
Dott.ssa Katia Guadagnini
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L’emergenza da COVID-19: “Chi aiuta e sostiene chi aiuta”. I rischi per il personale che gestisce le emergenze in ambito ospedaliero
Gli effetti più devastanti di questa pandemia sono sicuramente quelli vissuti dalle vittime dirette e dai loro familiari. Ci possono essere conseguenze anche in coloro che svolgono professioni sanitarie “ad alto rischio”, ma anche nel personale amministrativo e gestionale a seguito del contatto con persone infette e/o traumatizzate.
Nonostante medici, infermieri, operatori sanitari interni ed esterni agli ospedali siano adeguatamente preparati ad affrontare eventi fortemente stressanti, le catastrofi come eventi naturali e pandemie creano stati di emergenza che, da una parte predispongono e attivano in modo efficace al contenimento dei danni, ma, dall’altra, predispongono alla possibilità che compaiano problemi da un punto di vista psicologico.
Ricerche condotte sul personale addetto alle emergenze, tra cui il personale sanitario, indicano chiaramente come essi presentino reazioni negative a livello psicologico, fisico e sociale, con conseguenze sia su un piano personale che professionale.
Sebbene esista un’innegabile componente di soddisfazione personale, svolgere professioni d’aiuto, in condizioni altamente stressanti, sotto minaccia di eventi improvvisamente troppo grandi per permettere una difesa e una gestione immediata ed efficace, porta ovviamente a conseguenze negative sul piano emotivo.
Tra le principali cause di rischio di sviluppare conseguenze stressanti in questo periodo ci sono: l’imprevedibilità degli eventi, la mancanza di informazioni e protezioni adeguate per sé stessi e i colleghi (e di conseguenza per i cari), il numero alto di vittime, la fatica fisica, strutture operative inadeguate. Le principali conseguenze sono l’alto stress, il burnout, la traumatizzazione secondaria (o trauma vicario).
La condizione di alto stress:
L’alto stress rappresenta il principale rischio occupazionale degli operatori. Come possiamo aiutare in questa situazione? Le strategie di aiuto in situazioni di questo genere mirano a: ridurre gli effetti negativi prodotti dallo stress grazie, per esempio, ad una ristrutturazione cognitiva il cui obiettivo è porre l’attenzione più agli aspetti positivi che a quelli negativi della situazione; aumentare la consapevolezza di maggiore controllo su di sé e sulla situazione; condividere le esperienze con colleghi o amici e familiari per gestire meglio le emozioni.
La traumatizzazione vicaria.
Come detto, il personale a diretto contatto con persone che stanno vivendo un forte trauma può sviluppare una condizione di traumatizzazione che, per questo, viene definita stress traumatico secondario o trauma vicario. Infatti, i sintomi della traumatizzazione secondaria sono sovrapponibili ai principali sintomi da stress post-traumatico. I sintomi presentati potrebbero essere di iper-attivazione, forte ansia o rabbia e irritabilità, difficoltà alla concentrazione e disturbi del sonno. Accanto a questi, pensieri intrusivi o immagini ricorrenti, percezioni e incubi legati al riproporsi di memorie traumatiche. Inoltre, possono attivarsi condotte di evitamento finalizzate ad evitare luoghi o persone legate al trauma, ma anche dettate dalla paura di sperimentare emozioni penose dalle quali si sentono invasi.
Cosa possiamo fare per sostenere chi si trova in questa condizione? Riconoscere questa situazione, immediatamente sostenere e stabilizzare questa sofferenza e attivare interventi post- emergenza specifici per la prevenzione della traumatizzazione secondaria e inviare a specialisti esperti in traumi.
Il burnout
Ciò che brucia le energie dei lavoratori, soprattutto quelli che esercitano professioni d’aiuto, ma ovviamente estendibile a qualsiasi categoria professionale in condizione di sovraccarico, è la sensazione di sovraffaticamento per iper richiesta, pensata ingiustificata, di risorse fisiche ed emotive. Può presentarsi la sensazione di distacco da pazienti/utenti, la ridotta percezione di efficacia personale e lavorativa, ansia, tristezza e iperirritabilità, disturbi del sonno e forte affaticamento. La conseguenza può coinvolgere sia il singolo lavoratore in termini personali e professionali, ma anche l’utenza e l’organizzazione tutta, a causa di possibile assenteismo, continue minacce di lasciare il lavoro, bassa produttività.
Come possiamo aiutare?
Il burnout, dicevamo, insorge non soltanto come una sofferenza della persona, ma anche come una fatica organizzativa del posto di lavoro. Gli interventi di aiuto in una situazione di emergenza saranno mirati al sostegno del singolo lavoratore e saranno estesi al gruppo di lavoro e ai manager e dirigenti. Abbiamo riportato brevemente quali potrebbero essere le condizioni psicologiche degli operatori coinvolti nella gestione delle emergenze. Gli specialisti impiegati saranno psicoterapeuti esperti in psicotraumatologia, psicologi delle organizzazioni e psicologi sociali. In generale, qualsiasi intervento ha come obiettivo finale la prevenzione del burnout, della traumatizzazione secondaria e il rientro in una condizione di “nuova normalità” grazie alla promozione di una mentalità resiliente, ossia la capacità di usare le proprie risorse per superare i problemi.
Ciò che spesso manca, e nel nostro contesto socio-culturale particolarmente, è l’attenzione da parte degli specialisti delle risorse umane verso i professionisti delle emergenze. Da ciò deriva un inevitabile limite per i progetti efficaci di intervento, ma questo limite può anche diventare occasione di un più ampio spettro di proposte di sensibilizzazione in questo senso.
Angela Draisci
Fonti:
Figley 1999
Van der Ploeg, Dorresteijn, Kleber, 2003
DSM V (APA 2013)
Goleman, 1995
Mc Cann, Pearlmann 1990
Maslah, Jackson, Leiter 1996, 2008
Adolescenti e abuso di cannabinoidi
Si sta diffondendo sempre più l’ informazione non corretta secondo cui gli “spinelli” non farebbero male.
Molti giovani pensano che qualche “canna” non faccia danni, ossia che non sia capace di creare nessuna modifica al cervello.
Esiste una ricerca pubblicata dal Journal of Neuroscience secondo la quale sono effettivamente sufficienti poche “canne” per modificare la struttura del cervello soprattutto in età adolescenziale.
Lo studio ha preso in esame 46 giovani di 14 anni che avevano fatto uso saltuario di cannabis (anche solo due volte). L’esito dell’osservazione ha portato ad evidenziare variazioni nel volume del cervello, alterazioni a livello dell’amigdala (centro di integrazione e regolazione delle emozioni) e dell’ippocampo (centro di modulazione della memoria e delle abilità spaziali).
L’ipotesi degli studiosi è che la cannabis intervenga nei processi di rimodellamento dei neuroni (pruning) che si attua nel nostro cervello almeno fino ai 18 anni.
Il pruning, la potatura, serve a rimuovere dal nostro cervello connessioni che non servono man mano che cresciamo, rendendolo più “plastico”, ossia più capace di mantenere efficienti le sue funzioni, quando abbiamo la necessità di imparare informazioni nuove e complesse.
Molti ricercatori hanno collegato alterazioni del pruning all’esordio di disturbi psicotici e neurologici.
Angela Draisci
Fonti:
K. Richardson Gill, MD: “ What is synaptic pruning?” Healthline January 2018
“Grey matter volume differences associated with extremely low levels of cannabis use in adolescence” The Journal of Neuroscience
La paura e l’ansia ai tempi del Corona Virus
L’emergenza “Corona virus” ci sta mettendo a dura prova sia fisicamente che psicologicamente.
In questo periodo molti di noi fanno fatica a regolare le proprie emozioni: proviamo tristezza, rabbia, paura, angoscia, terrore e panico; l’emozione è tanto più intensa quanto più presumiamo che il pericolo sia grande.
Vi sono delle ragioni se gli esseri umani provano delle emozioni: noi non possiamo impedire l’emergere delle emozioni in quanto si tratta di reazioni normali che costituiscono fonte di informazione.
Le emozioni infatti ci consentono di sopravvivere, ci motivano all’azione, ci permettono di reagire in modo veloce rispetto al pericolo, possono essere segnali che qualcosa sta accadendo in un determinato momento.
Soffermiamoci ad esempio sull’emozione della paura. Noi e gli altri mammiferi sperimentiamo la paura ogni qualvolta percepiamo o ipotizziamo una minaccia. Pensiamo ad una gazzella che sta pascolando in una savana che sente all’improvviso un rumore tra la vegetazione…Tutti i sensi sono alla ricerca di un indizio…un altro scricchiolio e la gazzella scappa.
La gazzella deve la sua sopravvivenza proprio alla paura, al perfetto funzionamento del suo sistema di allarme e all’efficacia della sua corsa, che le consentono di avvertire il pericolo e di reagire prontamente, anziché diventare pasto per un leone.
La paura ci segnala il pericolo e ci mette nelle condizioni di metterci in salvo. E’ tra tutte le emozioni quella più automatica, che si attiva senza pensare e prevale su tutte le altre.
La paura è rivolta al futuro, ci fa preoccupare per quello che potrà accadere, è una sorta di sentinella che ci tiene in allerta per possibili pericoli. Sperimentare la paura è del tutto normale in questo periodo e mettere in atto tutte le azioni (restare in casa, lavarsi le mani frequentemente, utilizzare la mascherina e i guanti) ci consente di porre al sicuro noi stessi e gli altri.
E’ importante accettare questa emozione, cosi come la sua “sorella” più evoluta, l’ansia, quest’ultima caratterizzata da una sovrastima del pericolo - percepito come in grado di giungere da qualsiasi parte - e da una sottostima della capacità di affrontarlo, schiacciati da un forte senso di vulnerabilità.
Perché se noi rinunciamo a vivere delle esperienze nella convinzione che provare paura ed ansia sia dannoso, consumiamo gran parte della nostra energia per sfuggire a queste esperienze.
Arriviamo alla non accettazione di una parte di noi e della nostra vita e poniamo in essere comportamenti dannosi.
Spesso gli eventi interni dolorosi sono come sabbie mobili, più ci dimeniamo per uscirne, più ci fanno affondare.
Un’emozione ha una sua funzione, è necessario avvicinarsi ad essa il più possibile, perché ci fa più male combatterla.
Dunque è’ importante riconoscere le emozioni che proviamo in questo periodo, dare ad esse spazio, non impedire che emergano. Riconoscere quali sono i pensieri che le accompagnano, soprattutto se sono emozioni e pensieri scomodi.
Proviamo ad accettare che alcune esperienze sono spiacevoli e possiamo provare tanta ansia e frustrazione nell’affrontarle.
Proviamo ad essere nel “qui e ora” e ad accettare che questo è il momento che la nostra vita ci propone.
Accettazione non significa affatto rassegnazione ma soltanto accettare ciò che non possiamo cambiare, aprendoci tuttavia a nuove strade e al cambiamento che esse comportano.
Certamente in questi giorni siamo tutti confusi e preoccupati, ci rendiamo conto che ci sono - e ci saranno - tanti ostacoli nella nostra vita: problemi privi di soluzione immediata, obiettivi che dobbiamo rimandare, un immanente senso di perdita.
Ma possiamo comunque utilizzare questo tempo per vivere la nostra vita nel migliore dei modi, per fare le cose che contano veramente per noi. Non sarà affatto tempo perso.
Domandiamoci:
“Come posso prendermi cura di me?
“Cosa posso fare per gli altri che sono in casa con me?”
“Cosa posso fare per la comunità in questo momento?
E in base ai nostri valori agiamo per vivere con atteggiamento gentile e costruttivo questo periodo, prendendoci cura di noi stessi e degli altri.
Continuare ad essere una risorsa per gli altri è possibile: anche se siamo lontani fisicamente possiamo essere vicini emotivamente.
Preghiera della serenità
Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare,
Che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare,
Che io possa avere soprattutto la saggezza per conoscere la differenza.
Vivendo un giorno per volta;
assaporando un momento per volta;
accettando la difficoltà come sentiero per la pace.
Prendendo questo mondo così com'è, non come io vorrei che fosse.
Che io possa essere ragionevolmente felice in questa vita. (Tommaso Moro)
Dottoressa Enza Cannavale
Stress da lavoro, segnali di allarme
Molto spesso per diverse motivazioni tra cui disagio coi colleghi, tensioni col capo, portano se prolungate, a un forte stress che ricade inevitabilmente sulla salute e sull’equilibrio psichico.
Troviamo nel libro “Morire per uno stipendio” uno studio molto interessante condotto da Jeffrey Pfeffer, il quale dichiara che solo negli USA, la cattiva gestione del personale sia costata ai datori di lavoro statunitensi 300 miliardi di dollari nell’ultimo anno e possa causare un numero di morti che raggiunge i 120mila, dati decisamente allarmanti.
Quali possono essere quindi i sintomi di stress da lavoro?
Uno dei primi ad essere riscontrati è decisamente l’insonnia, svegliarsi di notte per le preoccupazioni dovute al proprio lavoro è un segnale d’allarme decisamente da non sottovalutare. Troviamo poi anche tensioni al collo, spalle e testa, emicrania che possono essere accompagnati da dolori muscolari e mal di schiena, sfociando in seguito anche in problemi più gravi come ulcere o problemi cardiaci, ciò è dovuto all’azione del cervello che rilascia adrenalina e altri ormoni e questo va a interessare tutta la sfera fisica della persona.
Purtroppo a risentirne è anche la salute mentale, partendo da un senso di spossatezza generale, affaticamento, irritabilità, problemi allo stomaco con dolori improvvisi, gonfiore intestinale o costipazione, sintomi che solitamente non siamo soggetti a ricondurre a uno stato di stress in verità, ma che sono un evidente segnale che qualcosa non va, scatenando anche ansia come patologia e a tutto questo si può aggiungere anche che il sopportare eccessivo stress lavorativo può influire sull’alimentazione intesa come valvola di sfogo, con un amento di peso, fino a portare alla depressione, andando di conseguenza a influire sull’umore poiché la flora intestinale viene modificata.
Tutto questo può portare allo stress da lavoro correlato.
Come riconoscere i segnali di allarme?
Ci sono tre fasi che possono identificare il modo in cui una persona reagisce allo stress:
· fase di allarme: si acutizza nell’organismo un senso di allerta che porta a dei segnali
psico-fisiologici come l’aumento del battito cardiaco, iper-ventilazione o sudorazione eccessiva ecc;
· fase di resistenza: ovvero quando ci adattiamo alla situazione, quando “sotto stress rendiamo meglio” è la fase in cui l’organismo riesce a reggere i ritmi e le tensioni;
· fase di esaurimento: termina la capacità di adattamento alla situazione precedente, si perdono le difese. A questo punto di prolungato stress possono insorgere malattie fisiche e psichiche;
Lo stress eccessivo può portare a sviluppare diverse patologie.
E’ importante capire ed essere consapevoli di cosa ci stia causando lo stress, cosa ci porta più preoccupazione;
va analizzato l’ambiente in cui si lavora per capire se dipende da noi o da fattori che non possiamo controllare, a quel punto va stabilita una priorità per poter gestire strategicamente il proprio tempo, limitare o riorganizzare, per poter gestire noi stessi attraverso la strategia del time management.