Negli ultimi anni infatti la divulgazione di temi psicologici ha trovato nei social una nuova casa.
Professionisti, divulgatori ma anche influencer parlano di attaccamento, autostima, ansia, traumi, narcisismo.
La psicologia è diventata dunque un tema da social: termini che un tempo appartenevano ai manuali ed erano maneggiati dai clinici oggi fanno parte del linguaggio quotidiano, diventando hashtag e trend virali.
La velocità dei contenuti brevi e il linguaggio semplice hanno permesso alla psicologia di essere facilmente fruibile e arrivare ovunque.
É un cambiamento importante: mai come oggi si è parlato così apertamente di salute mentale. Chi un tempo avrebbe provato timore o vergogna nel consultare uno psicologo ora trova un linguaggio che normalizza e legittima il disagio e il dolore psichico.
- Da un lato, questo fenomeno ha un valore enorme: parlare di ansia, depressione, traumi o relazioni disfunzionali è sempre meno un tabù, con la conseguenza che sempre più persone si avvicinano alla psicologia senza paura;
- Dall’altro lato, però, questa “psicologia pop” rischia di trasformare concetti complessi in slogan semplificati creando confusione e, talvolta, alimentando auto-diagnosi errate.
Quando un concetto viene ridotto e semplificato in una frase accattivante, il rischio è che perda il suo significato più profondo e complesso.
Capita sempre più frequentemente che termini come “gaslighting”, “trauma”, “narcisismo”, attaccamento ansioso” vengano usati in modo improprio, fino a diventare etichette da applicare a sé o agli altri.
Il problema ovviamente non è la divulgazione in sé, quanto piuttosto la perdita di contesto: ciò che nasce come spunto di riflessione diventa diagnosi.
In questo modo:
- un conflitto può sembrare un trauma,
- un momento di stress viene interpretato come un disturbo d’ansia.
Il linguaggio della psicologia,
se privato del proprio contesto clinico,
rischia di diventare una lente distorta
che ci fa leggere tutto in termini patologici.
Quali sono dunque i contenuti che possono essere utili per i fruitori social?
Possono essere preziosi per esempio post che offrono
- strumenti di auto-osservazione,
- spunti di consapevolezza
- piccole strategie per il benessere quotidiano
- modi per dare un nome a un’emozione
- spunti di riflessione.
Ciò che va preso con cautela sono invece
- i contenuti assoluti, senza sfumature, che chiudono invece di aprire alla riflessione
- le diagnosi semplificate (“se fai cosi, allora sei …”), in quanto per avere una diagnosi devono essere presi in considerazione molti fattori più complessi di una semplice check-list.
Può essere utile inoltre
- verificare da chi viene prodotto il contenuto: un professionista o un influencer generico?
- se vengono citate fonti o riferimenti teorici.
In linea generale, se un contenuto ci risuona in qualche modo o vengono proposti degli spunti sui quali ci si identifica, può essere utile confrontarsi con unə psicologə portando le proprie riflessioni in terapia.
La psicologia sui social può dunque essere una porta d’ingresso preziosa:
- rende più accessibili concetti complessi;
- permette a molte persone di riconoscersi in esperienze comuni.
Ma come ogni porta d’ingresso, non basta entrare nell’uscio per esplorare davvero la casa.
- Un reel o un post non sostituiscono l’approfondimento,
- e soprattutto non sostituiscono l’incontro con un professionista quando c’è sofferenza;
Allo stesso tempo, non serve demonizzare i contenuti online: se impariamo a riconoscerne limiti e potenzialità, possono diventare spunti utili per riflettere su di noi.
La chiave dunque potrebbe essere questa: usare i social come ispirazione, non come diagnosi.
Forse il prossimo video che apparirà sul feed non ti dirà “chi sei”, ma potrebbe offrirti una domanda nuova da portare dentro di te, o magari da esplorare in uno spazio sicuro come una terapia.
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